Gli occhi, iniettati di droga, osservano una borgata esausta in cui il sole e la notte si danno il cambio per tormentare i protagonisti. Continue cornici modificano gli angoli esistenziali di una coppia di amici i cui movimenti del volto non trovano pace e ci raccontano l’alfabeto di un autore cosciente e pienamente consapevole del proprio mezzo espressivo.
Ostia, 1995. Mentre l’AIDS disorienta l’Occidente, ecco che nella borgata i giovani Vittorio e Cesare, amici fraterni, passano le loro giornate a imbottirsi di pasticche, sniffare cocaina e ululare la loro rabbia nel buio della notte. Vittorio però, a fatica, si tira fuori da quella vita e sembrerebbe aver trovato la pace del cuore tra le braccia di una donna e nella polvere di un cantiere. Intanto Cesare si innamora dell’ex di Vittorio, le bella e fragile Viviana, e viene “salvato” dall’amico che lo porta con sè a lavorare. Le cose tuttavia vanno male, i due si allontanano e si ritrovano e, nonostante lo sgretolarsi di un’esistenza difficile, saranno sempre uniti e complici.
La rapina, in questa prosecuzione di Claudio Caligari, non ha più la forza di farsi sistema narrante con il volto scoperto e l’adrenalina che pompa nelle vene. Qui diventa meccanismo ironico, metafora di un mondo e di uno spazio inesorabilmente modificatosi. La borgata, gestita per tutto l’arco narrativo dai movimenti veloci di Vittorio e Cesare, si è arresa al sistema e infatti i ricchi non ci sono, forse osservano in qualche punto dall’alto del mondo ma non li vediamo mai. La narrazione ha come bussola l’ideale d’amore, condito da un’autorialità che sforna il dialetto, il biascicare una parola, il tracannare una pasticca come regolatori continui di ritmo o come simboli esistenziali. Il ritmo è orizzontale, la macchina da presa ha bisogno di continue cornici, angoli per proteggere la propria umanità e si muove in uno spazio in cui il tempo, seppur complice di degrado e miseria, ha la forza di donare speranza. Sarà così per uno dei protagonisti in un finale emozionante e autentico.
Ed è proprio l’autenticità di questo Non essere cattivo a rendere l’ultimo film di Claudio Caligari un piccolo gioiello cinematografico. Gestito con cura, capace di presentare un’attorialità vibrante e sporca, con una fotografia che emoziona e con i campi/controcampi o i primi piani che gonfiano volti e stomaco. Restano intatte, passando alla fase successiva e forse alla stagione della consapevolezza, le pulsioni di morte e il simulacro cristologico. Un testamento artistico che porta emozione e nostalgia.