To Kill A Mongolian Horse … Venezia81

To Kill A Mongolian Horse … Venezia81

Un pastore senza il suo bestiame è ancora un pastore? Il rumore degli zoccoli e il nitrire dei cavalli testimoniano la performance e le ferite sul corpo anticipano quelle dell’anima. I colori della tradizione sono schiacciati dalla storia, dal contemporaneo e quindi va trovata, a breve, una presa di coscienza inevitabile.

Mongolia interna. Il pastore e performer Saina, insieme al suo cavallo bianco, porta avanti la tradizione mongola medievale, quella dei cavalieri al servizio di Gengis Khan. I costumi d’epoca, le acrobazie e le corse servono a deliziare il pubblico cinese, da sempre esigente se non invadente. Nella vita di tutti i giorni  però egli deve far fronte a molte problematiche, con l’azienda agricola di famiglia in perdita, un padre alcolizzato, un figlio che non vede quasi mai dopo la separazione dalla moglie e un fisico che non sembrerebbe reggere più alle sollecitazioni del lavoro.

La Mongolia, nel tredicesimo secolo, era l’impero più grande del mondo e nei secoli a venire la leggenda del suo Princeps avrebbe affascinato intere generazioni. Tuttavia, dal diciassettesimo secolo in poi, l’influenza e la tracotanza cinese avrebbero messo via via in crisi gli usi e i costumi di questo popolo. Il film racconta la parabola e la solitudine di un uomo dei giorni nostri, con gli enormi spazi del Deserto del Gobi che si alternano alle epifanie di Saina, a quei flashback che recuperano la cultura e le atmosfere della Mongolia medievale. Il linguaggio della m.d.p. utilizza la tecnica del quadro nel quadro, dove l’animale, quel cavallo bianco elegante, diventa l’unico alleato per le corde emotive del protagonista. Il doppio registro linguistico, mongolo e cinese, marchia il senso di impotenza di una popolazione da secoli condizionata, strumentalizzata e gestita dal vicino divenuto ingombrante. La musica e le sonorità sono quasi del tutto affidate ai versi degli animali, al vento delle vallate semi-desertiche e al respiro dei soggetti in campo. L’orizzontalità narrativa non vive di picchi viceversa mantiene dall’inizio alla fine un incedere costante, fatto di movimenti di macchina classici e di un montaggio discreto, lineare.

Ispirato a fatti realmente accaduti, il film della regista Xiaoxuan Amanda Jiang è una dedica d’amore al suo paese, un racconto intimista che sviluppa delle precise omeomerie su una cultura, una tradizione, una memoria, un tempo. La sincerità del racconto giustifica anche dei peccati di gioventù come la confusione, a scapito dell’intreccio, nell’utilizzo delle epifanie di Saina.

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