The Imitation Game

The Imitation Game

A Guerra finita, a prendere dimora nella riflessione dello spettatore sarà la sensibilità del protagonista. I conflitti, i calcoli, le paure, i segreti e la corsa contro il tempo saranno via via gli strumenti per sondare l’anima di un grande scienziato la cui diversità è, in questo caso, croce o delizia, genio o malattia, vittoria o sconfitta.

Inghilterra, 1951. La casa del matematico Alan Turing viene svaligiata di prima mattina e il nostro invece di essere semplicemente ascoltato come persona interessata sui fatti viceversa diventa oggetto di un’indagine approfondita della polizia sul suo “torbido” passato. Emerge così il suo operato presso i Servizi Segreti inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, la continua criptoanalisi dei codici cifrati della macchina nazista Enigma e, come ciliegina sulla torta, la sua omosessualità.

La storia si sviluppa su tre linee temporali: abbiamo il passato prossimo che governa la narrazione, in cui Turing viene assoldato dal Governo Inglese e insieme ad un’equipe di specialisti inizia a decrittare i messaggi; c’è il presente, relativamente ridotto, degli anni Cinquanta, in cui si sviluppa l’indagine della polizia che rovinerà la vità del protagonista e infine il passato remoto, la giovinezza, in cui abbiamo il versante poetico della storia con Turing giovane ragazzino impacciato e silenzioso che palesa lentamente il suo genio e le sue pulsioni. Gli spazi sono granitici, di fatto Bletchley Park, in cui si sta per vincere la Guerra a suon di violazioni dei cifrari tedeschi, il commissariato e l’università di Cambridge. La regia è di stampo classico, con un moto ondulatorio e mai sussultorio, fatto di movimenti di macchina lenti, quasi ci trovassimo in un Museo e fossimo guidati continuamente per mano. A governare il quadro c’è sempre Turing, prima pazzo arrogante poi ragazzo indifeso e geniale, di nuovo salvatore della Patria e poi vittima del segreto di Stato, in mezzo ad una Seconda Guerra Mondiale che resta sullo sfondo ed entra in campo con alcune ricostruzioni in digitale o con poche immagini di repertorio.

La retorica non alberga questo film , che risente del rigore estetico del suo regista, il norvegese Morten Tyldium, e che si fa apprezzare per la capacità di asciugare gli stereotipi sulla Guerra per concentrarsi sul protagonista, magistralmente interpretato dall’animalesco quanto indifeso Benedict Cumberbatch, lo Smaug di Lo Hobbit. Il padre putativo del personal computer diventa metafora, in mezzo a numeri, silenzi e segreti, dei tornanti pericolosi, spaventosi che può assumere una morale fuori tempo massimo e che ancora porta le cicatrici del proprio passato.

 

 

 

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