Un’opera cinematografica, per considerarsi tale, dovrebbe caratterizzarsi al suo interno mediante più livelli di lettura; la stessa, arbitrariamente e magicamente, condurrebbe lo spettatore nel suo percorso di entertainment, di riscontro critico sul reale e di gioco metanarrativo. A tal proposito, nel 1996, il giovane e talentuoso Danny Boyle consegna alla storia del cinema un film divenuto registro iconico e detonatore emozionale: Trainspotting.
Chiunque abbia interagito con questo film avrà apprezzato i vari livelli che Sick Boy, “Franco” Begbie, Spud e Max riescono a far emergere con i rispettivi archi narrativi. Lo squallore, la vita su di giri di un eroinomane, la sciatteria, il gesto felino e di protesta all’interno di un quadro allucinato e picaresco, diventano, in questo film, grido generazionale e documento storico. Trainspotting ci racconta l’immediatezza dell’azione tipica degli anni Novanta, mediante personaggi che martellano continuamente la nostra corteccia cerebrale; quest’ultima è preda inerme delle stimolazioni visive e sonore di un testo filmico che ha nel brano musicale Born Slippy il suo più invadente missus dominicus. In quel mondo, emerso dalle viscere di quegli anni, soltanto una figura aveva la responsabilità di prendere l’occhio e le sinapsi dello spettatore divenendo Mercurio del demiurgo Boyle: Max Renton.
Interpretato da un giovanissimo (tutti i protagonisti lo erano nel 1996) Ewan McGregor, che grazie a questa performance vedrà aprirsi le porte di Hollywood, il personaggio di Max Renton è il vero sarto di tutto l’abito/Trainspotting. A livello di struttura narrativa è lui che indirizza il tema del film – spiegandoci il registro identitario dell’opera e il mondo che andremo a conoscere; a livello di linguaggio è lui che narra mediante un doppio-binario – sia in medias res, sia mediante la voce fuori campo che informa lo spettatore creando una fidelizzazione; infine è sempre lui a concludere la storia portandoci in dote la riflessione – quando decide di rubare i soldi lasciando gli altri tre in preda al sonno. In tutto e per tutto è Renton a divenire nostro complice in mezzo alle luci stroboscopiche.
Con T2 Trainspotting il registro strutturale si modifica considerevolmente. Sin dalle prime sequenze è possibile percepire, riscontrare un assetto diverso, in cui non è più Renton a gestire ritmo e significazione viceversa è l’intero gruppo dei quattro a prendersi tutte le responsabilità narrative. Boyle, che scongiura perfettamente il rischio di rendere i suoi personaggi delle maschere vuote e grottesche, cerimonia con questo sequel ciò che ha prodotto e raccontato con il primo film. Tutta l’opera è attraversata da un velo di malinconia, in cui all’azione presente si associano rimandi visivi dal passato, vere e proprie sequenze dell’opera prima che ciclicamente, come il passare delle stagioni, pungolano i personaggi e lo spettatore. Max ha perso per sempre la spavalderia di quando aveva vent’anni e, simbolicamente, ha bisogno di aggrapparsi al resto del gruppo, a quel Begbie che alla frustrazione sessuale ha aggiunto quella di non essere un buon padre, a quel Sick Boy che va sempre più “normalizzandosi” in Simon e a Spud, che mantiene il legame con il tema dell’eroina ma sublima lo stesso in riflessione mediante il suo talento per la scrittura.
All’ovvia necessità di proporre dinamiche emotive riconfigurate dallo scarto temporale dei vent’anni passati, T2 non è solo l’entertainment puro gestito da un reset dei personaggi in dialettica tra vecchio e nuovo; è, di fatto, una riflessione sulla sopravvivenza di questi personaggi in un’epoca che non riconosce più gli anni Novanta, che ha chiuso la porta a quel periodo: a testimoniare ciò ci pensa la retrocessione di Renton nel “gruppo”; la retrocessione di colui che aveva in mano vita, morte e miracoli del primo film. Questa scelta è come se testimoniasse l’incapacità del contemporaneo di riconoscere il suo passato, di ritrovare empiricamente degli insegnamenti da applicare al suo presente. L’unica salvezza resta l’evocazione, e qui entriamo nel gioco metanarrativo, dettata dal personaggio di Spud. Quest’ultimo è paradossalmente rimasto, ad un primo livello di lettura, identico a vent’anni prima: eroinomane e stralunato. Le sue crisi d’astinenza però, i suoi silenzi e la sua solitudine, potrebbero indicarci i traumi della nostra epoca. La sua passione per la scrittura, quelle frasi profuse carsicamente, potrebbero testimoniare un prima e un dopo in cui non c’è salvezza.
T2 è dunque la presa di coscienza di un passato che non può ritornare; di un passato che non può riproporsi; di un passato che non può riconfigurarsi. C’è però l’evocazione, l’omaggio e la riflessione sul presente mediante più livelli di racconto. Tutto ciò potrebbe decretare questo sequel come film riuscito e sincero.