Tra le tante immagini che bombardano il nostro quotidiano, quel volto tumefatto e quel corpo scheletrico, senza vita, di Stefano Cucchi restano un’istantanea che, progressivamente, ha condizionato, interrogato l’opinione pubblica italiana. Una storia tragica e concentrata, un’indagine che, ancora oggi, non trova pace, come la famiglia del ragazzo romano morto il ventidue ottobre 2009 durante la custodia cautelare al Regina Coeli. Il cinema, quest’opera del bravo regista Alessio Cremonini, ci riporta a quei giorni, presentando un film “fisiognomico” nel suo lungo, claustrofobico e macchiato incedere. Il volto, il corpo di Stefano sono continua testimonianza visiva, in cui non c’è azione e reazione ma semplice discesa nel baratro.
Roma, 15 ottobre 2009. Stefano ha finito di lavorare al cantiere e, finalmente, ha deciso di cenare a casa dei genitori. Il ragazzo ha avuto problemi di droga, è uscito da poco da un centro di recupero e, quando comunica alla madre che quella sera uscirà, il volto della donna si vela di preoccupazione. Mentre fuma una sigaretta in macchina con un amico, viene fermato dai carabinieri che lo perquisiscono trovandogli addosso dodici grammi di marijuana. In questo istante inizia il viaggio senza ritorno del protagonista; un viaggio che lo vedrà essere oggetto di violenza e simbolo di sofferenza, tra stazioni dei carabinieri, penitenziari e ambulanze. Muore il 22 ottobre, sette giorni dopo l’arresto e senza aver potuto vedere, nei suoi ultimi giorni di vita, i suoi cari.
La fisiognomica, governata da una buona scrittura, sin dalle prime sequenze ci presenta un protagonista, interpretato dal raffinato Alessandro Borghi, che si muove in continui spazi chiusi. Lo vediamo in palestra, a casa con i genitori e in macchina, nell’unico momento dove il suo volto, ancora risparmiato dalla violenza, sembrerebbe illuminarsi, trascendere quella stessa situazione. Dopo l’arresto è il colore violaceo, agguantato da una fotografia scura, a prendere la scena per non abbandonarla lungo tutta la narrazione. Il protagonista non vive di passaggi narrativi cruciali, tranne il momento della violenza, non mostrata, che subisce o la sequenza fredda del processo; per il resto il film è pura sofferenza fisica di un protagonista mentre il contesto pulsa di schiere di personaggi che si inchiodano alle loro azioni. Quest’ultime sono semplici e non calcate, come l’angoscia dei genitori di Stefano e della sorella, ferme e distaccate, come le azioni dei carabinieri in borghese, o routinarie, come l’approccio dei medici o degli infermieri. La voce flebile di Stefano, sempre più agguantato dal suo destino tragico, diventa mortalmente triste senza però rendere il personaggio una vittima, se non di se stesso.
Sulla mia pelle è un bel film, il suo unico difetto sta nell’aver strutturato la sua messinscena, in termini di atmosfere musicali e di organizzazione del quadro, ispirandosi troppo a prodotti seriali di successo come la prima stagione di Gomorra. Detto questo, il personaggio di Alessandro Borghi è sapientemente raccontato dalla m.d.p. di Cremonini. Quest’ultimo non rinuncia mai al desiderio di stare addosso a quel volto tumefatto, a quel corpo che va rinsecchendosi e che diventa simbolo di sofferenza, angoscia e senso di colpa. È una storia di volti, di volti che non trovano pace e comunicazione, che non trovano risposte o che restano divisi dall’impossibilità ad accettare ciò che si sta compiendo. La scelta di non puntare il dito verso le responsabilità ma di raccontarle, sbatterle in faccia allo spettatore risulta lieta e quelle didascalie finali ci ricordano che ancora, purtroppo, si è lontani dai veri titoli di coda.