A interagire immediatamente con noi, mentre lo scorrere del treno a vapore ci riporta a un tempo della memoria, è una voce fuori campo: la morte. Essa cesellerà la narrazione, in alcuni momenti, lasciandosi affascinare dalla potenza esistenziale dei personaggi. Mentre la spregiudicata Germania prosegue il suo diabolico piano, una bambina, i cui occhi grandi entrano in dialettica visiva con i boccoli incornicianti il candido viso, è pronta a farci scoprire il potere delle parole.
Germania nazista, 1938. Visto che sua madre è una comunista e dovrà presto abbandonare il paese, Liesel viene affidata a Hans e Rosa Hubermann. Il ricordo del fratellino, morto durante il lungo viaggio verso la speranza, dà alla protagonista la forza per andare avanti, anche se c’è un problema: Liesel è analfabeta. Grazie alla dolcezza e alla pazienza di Hans, la piccola scoprirà il piacere della lettura e la forza simbolica, evocativa delle parole. Intanto, mentre lo “spettacolo” macabro del Führer imprigiona le coscienze, ecco che gli Hubermann nascondono in cantina il giovane ebreo Max. Sarà quest’ultimo a determinare la crescita di Liesel.
La regia è di stampo classico, non ha bisogno di flashback o voli pindarici, semplicemente testimonia, con discrezione e il meccanismo causa-effetto, la parabola di Liesel. I caratteri sono pregevolmente sfumati e, mentre il punto di vista e la crescita della protagonista cangiano la narrazione, ecco che diveniamo permeabili alla dolcezza e grazia di Hans, alla rigidità di Rosa dovuta alla povertà, all’amore per la vita di Max. La voce fuori campo e i soldati nazisti, a turno, reiterano la latenza di morte, mentre le parole e i libri “proteggono” la missione della protagonista. A ciò si aggiungono elementi che significano la purezza dell’infanzia e dell’animo umano ma, allo stesso tempo, ci tengono legati a un tempo tragico del Novecento; da qui un pallone di cuoio, una fisarmonica, la via del quartiere, le scale che portano giù in cantina. Tonalità grigie e giallo ocra sovrastano il bianco candido della neve e un ritmo costante, forse troppo in alcuni passaggi, caratterizza la narrazione.
Trasposizione cinematografica del romanzo di Markos Zusak, Storia di una ladra di libri è un film che non ha l’ampiezza linguistica e formale per proporci un’immersione all’interno del quadro, viceversa sfrutta la profondità dei sentimenti umani, con un versante attoriale di primo livello, per farci vivere un’esperienza. E se una persona vale quanto la propria parola, ecco che questo film vale quanto la propria densa e cosciente sincerità.