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Woodrugh è stato freddato. A piazzargli una pallottola dietro alla schiena ci ha pensato il poliziotto Burris, della combriccola del 1992 composta dal suo capo Halloway, dall’agente Dixon e da Caspere. Su quest’ultimo la verità lentamente affiora: Velcoro e Bezzerides, isolati e aiutati soltanto da Semyon e dalla padrona del bar Felicia, riescono a trovare la stagista Erica, di fatto Laura, e il fratello Leonard, i due bambini che in quella rapina persero i genitori e che hanno vendicato l’immane tragedia uccidendo Caspere. Semyon intanto mette su un volo per il Venezuela la bella Jordan e con l’aiuto di Velcoro è pronto a mettere fuori gioco Osip Agronov e Jacob McCandless che stanno chiudendo l’affare della ferrovia ad alta velocità, sui territori inquinati, con un gruzzolo di due milioni di dollari. Le tessere sembrerebbero tutte al loro posto ma solo la Bezzerides riuscirà a portarsi nel suo armadio una storia carica di tradimenti, bugie e vittime.
L’ultimo episodio di questa seconda stagione di True Detective a una prima lettura potrebbe lasciare sospesi molti quesiti o forse destabilizzare ancor di più coloro i quali hanno criticato la serie per la troppa farraginosità riguardo agli intrecci, individuando una verticalità complicata, a tratti noiosa. Esclusi i quattro protagonisti sui cui torneremo e fermo restando il perno centrale narrativo, quindi l’innesco orizzontale, di fatto Caspere, ecco che la serie ha puntato molto su due blocchi condizionanti la narrazione. C’è il blocco del 1992, della rapina e quindi del sistema di potere creatosi a Vinci con le figure di Caspere, Burris, Halloway e Dixon, e poi c’è il blocco del progetto ferroviario, delle terre inquinate e dei bordelli, portato avanti da Agronov, Caspere, Chessani e Blake. Muoiono tutti tranne Burris, che rappresenta il potere corrotto e lo status quo inviolabile. Le linee che sprigionano i due blocchi portano altre figure, come quella di Laura, di Leonard, dei messicani: tutti nuclei che reiterano il torbido e la nebulosa di questo universo. Ma la forza della serie sta nel costruire, rendendocele immutabili, immobili, caduche alcune relazioni che vivono la purezza e il cuore come atrio simbolico. In questo senso emerge la relazione tra Velcoro e Chad, con il test di paternità che segna quasi il cento per cento, gli occhi e lo sguardo innamorato di Emily verso Woodrugh, la chiacchierata tra Semyon e il figlio di Stan, l’isolamento della cantante del bar, l’elemento iconico che marchia la serie come la cicatrice di Felicia. Le cicatrici, che siano visibili o alberganti il passato e l’anima, proclamano un destino segnato per tutti i protagonisti che, come figure cristologiche, crollano a terra dalla croce che hanno portato per otto episodi. A salvarsi sono le donne, la Maria e la Maria Maddalena, di fatto Bezzerides e Jordan, che dovranno trasferire ai posteri il racconto di tutto ciò che è stato, di tutto ciò che si è verificato, di tutto ciò che non è emerso. Il piccolo bimbo in braccio a Bezzerides, frutto dell’amore con Velcoro, mitiga un’atmosfera di pessimismo in un luogo, il Venezuela, con la piazza adibita a festa ma che è nuovamente alcova per scappare, per coprirsi da qualcosa, per sfuggire da qualcuno. Nel corso della serie tanti sono stati i momenti di grande qualità registica, con l’occhio autoriale sempre attento ad esaltare le maschere con campi/controcampi cadenzati e dilatati dalla tecnica dello sfocamento; grande importanza hanno rivestito gli spazi, dal bar, centrale nei primi episodi, ai luoghi in cui aumentava, fermentava la mission dei protagonisti, dal casinò di Semyon alla casa di Velcoro, dall’ufficio della Bezzerides alla roulotte della madre di Woodrugh. Le macchine, come per la prima stagione, diventano un luogo a parte, momento di confessione, riflessione, silenzio o presa di coscienza mentre fuori un silenzio di tomba danza con il paesaggio, elemento espressionista qui planato dalla prima scena della prima stagione. Si chiude un cerchio, rimbalziamo tra un prima e un dopo, da quell’albero enorme in cui trovano il primo cadavere Cohle e Hart, ad un altro albero, meno ramificato ma più mastodontico e immerso nella natura, dove crepa Velcoro portandosi dietro anche l’ennesima occasione persa: il messaggio vocale fallito. E qui entriamo in un altro step di qualità di questa stagione, gli oggetti. Quest’ultimi sono fondamentali, dal coltello della Bezzerides al registratore di Velcoro, dalla motocicletta di Woodrugh al bicchiere di whisky di Semyon. Se la serie che più ha dato valore agli oggetti, capaci di assumere un loro terreno autonomo e simbolico sollecitando lo spettatore, è Mad Men, ecco che questa seconda stagione di True Detective può inserirsi tranquillamente in quel percorso virtuoso, andando a esaltare l’idea stessa delle potenzialità innumerevoli della rappresentazione. Su un versante ideale poi abbiamo quattro circuiti immaginativi che rappresentano i “moti dell’animo”: Velcoro è la rabbia e la dolcezza, la Bezzerides è il senso di colpa e il bisogno d’affetto, Woodrugh è il rimpianto e la responsabilità, Semyon è la frustrazione e la gratitudine. Il positivo e il negativo, il dentro e il fuori, il passato e il presente, la prima e la seconda stagione, tutte coppie di significazione che decretano la complessità e la forza di un prodotto di grande qualità a cui vanno perdonate anche alcune contorsioni di scrittura.