Signori, vi spiego chi sono. Io sono Pablo Emilio Escobar Gaviria. Ho occhi dappertutto. Il che significa che non potete muovere un dito in tutta Antioquia senza che io lo venga a sapere. Ci siamo capiti? Neanche un dito. Un giorno, diventerò presidente della Repubblica di Colombia. Potete accettare la mia offerta o pagarne le conseguenze. Soldi o piombo. (S.1: e.1). A parlare è il Padron del Cartello di Medellín, e questo è il vocabolario di terrore e visione che va apparecchiando. È iniziata la sua scalata come demiurgo del racconto e l’articolazione ha già abbracciato i suoi tratti peculiari: la parola, lo sguardo, il pensiero e l’attesa.
Da circa una settimana, sul network statunitense Netflix, è disponibile la seconda stagione della serie televisiva Narcos, incentrata sulla figura del bandito colombiano Pablo Escobar e ideata dal regista e sceneggiatore brasiliano José Padilha. La storia va dal 1979, anno in cui si definisce l’attività criminale di Escobar, fino alla capitolazione di quest’ultimo, avvenuta nel 1993. Quattordici anni in cui il Padron diventa l’uomo più potente della Colombia, riuscendo, con il suo Cartello, a controllare l’80% del traffico internazionale di cocaina e arrivando al settimo posto, per la rivista Forbes, come uomo più ricco del pianeta. Racconto seriale e racconto storico giocano sulla stessa linea, da qui il suo desiderio, fallito, di entrare in politica, gli atti terroristici, gli attentati continui a figure chiave della Repubblica Colombiana, la guerra cruenta con il Cartello di Cali, i sequestri, la mattanza di poliziotti e tutto ciò che ha contribuito a creare il “mito Escobar”. Mitologia che avrebbe potuto ostacolare le mosse di Padilha e company, a maggior ragione nel momento in cui si vuole raccontare un personaggio storico divenuto epopea esistenziale senza l’aiuto delle immagini in movimento. Il pericolo tuttavia è stato evitato grazie a una struttura drammaturgica di grande qualità e a una messinscena ricca di soluzioni.
Sceneggiatura. Agente conosce la storia del serpente e del gatto? Se il serpente ne ha l’occasione, uccide il gatto. E se il gatto ne ha l’occasione, uccide il serpente. Ma a volte, serpente e gatto vedono un topo enorme ed entrambi lo vogliono mangiare (S.2: e.3). Le prime due stagioni di Narcos non possono prescindere dal personaggio di Escobar, di fatto motore dell’azione, della narrazione e continuo corpo in movimento che governa totalmente il progetto narrativo. Ogni episodio, di circa cinquanta minuti, segue orizzontalmente il dato storico in un continuo accumularsi di eventi in cui la verticalità è data da una fluidità di conflitti. In superficie ci sono da un lato Escobar e i suoi sicarios, dall’altro gli agenti americani della DEA Steve Murphy e Javier Pena. Due blocchi che confliggono dall’inizio alla fine aprendo tuttavia, come serialità di qualità vuole, a conflitti più profondi in cui è la stessa idea manichea di bene e male a essere messa continuamente in discussione. Raccontando di una Colombia governata dal caos totale, lo script appassiona lo spettatore con una miriade di personaggi che offrono articolazioni modali ricche e ben congeniate. Un esempio per tutti la moglie di Escobar, Tata, un personaggio che non tocca mai la linea Crime della serie viceversa si ciba del Drama in una continua connessione con l’uomo che ama. La ricchezza poi è data dai molteplici turning point, a volte anche tre nel singolo episodio, in cui agiscono narcotrafficanti, politici, agenti federali, poliziotti, colonnelli, prostitute, diplomatici, avvocati corrotti, indifesi. Infine il reboot tra prima e seconda stagione munisce la serie di nuove figure rinvigorendo i protagonisti.
Spazio. In Narcos lo spazio gode di varie caratteristiche e obiettivi. Citando il cinema classico hollywoodiano, la regia in ogni episodio indugia su totali in cui emergono la bellezza della foresta, della natura colombiana e il fascino misterioso e mistico della città di Medellín, ripresa soprattutto di notte con le luci che riempiono la vallata circoscritta dalle montagne. Nella prima stagione i luoghi simbolici principali sono le tante ville, haciende, che metaforizzano il potere di Escobar di contro all’ufficio della DEA in cui Murphy e Pena sviluppano le strategie per incastrarlo. Nel mezzo c’è il Palazzo del Governo a Bogotà, dove il mondo della politica, ostaggio continuo delle richieste e del terrore di Escobar, vive una perenne frustrazione rappresentata dal personaggio del Presidente Gaviria. Nella seconda stagione i luoghi si modificano e alle ville si sostituiscono luoghi più fatiscenti, in cui si palesa la mostruosità di Escobar in dialettica con la lenta e inesorabile caduta. Campo e fuoricampo significano il quadro, con lo spazio che viene affettato da personaggi che “entrano” ed “escono”, come le lame dei tanti coltelli che torturano i corpi o i proiettili che continuamente perforano le carni. Sono questi luoghi che ritrovano assiduamente violenza fisica e verbale, ma che sono capaci anche di accogliere scene di grande intimità e calore umano.
Recitazione. Tutto il cast palesa affiatamento e grandi capacità di esprimere il mondo narrativo della serie. Detto questo l’attore brasiliano Wagner Moura, che interpreta il Padron, fornisce una performance di altissimo profilo. Il suo Escobar è un personaggio lontano dallo stereotipo epico e mitico presente in molti Biographic, ed è costruito su registri espressivi di grande impatto drammatico. Grazie alla sceneggiatura, l’attore feticcio di Padilha ci presenta un uomo dai forti picchi emotivi, viziato e ironico in alcuni passaggi, capace nel giro di un episodio di fracassare, in preda alla rabbia e alla paranoia, il cranio di un suo luogotenente (S.1: e.10) salvo poi mostrarsi sensibile e dolce con i figli, i quali vivono i suoi abbracci e le sue carezze. Moura inoltre, come tutti i personaggi colombiani, recita in spagnolo e modula con grande ricchezza di toni il suo linguaggio, con una voce roca, cupa e marcata che si adagia perfettamente alla musicalità dell’idioma colombiano. Quest’ultimo riempie continuamente l’immaginario della serie, dalle musiche ai suoni in campo e fuoricampo. Su questa scia segnaliamo anche il sistematico ricorso della serie a immagini di repertorio, tra telegiornali, video amatoriali e inserti fotografici, il cosiddetto real footage, che rintuzzano la narrazione e ricordano allo spettatore che tutto ciò che sta vedendo è realmente accaduto.
Un prodotto che non lascia dunque nulla al caso, che riesce a patinarsi come nelle migliori serie americane ma che vive anche di sfumature, di “cuore” latino mediante una fotografia che spesso richiama la tradizione della telenovela. Un prodotto che cita più volte la grande cultura e storia dell’America Latina, da Pablo Neruda a Simón Bolívar, passando per Gabriel García Márquez. Netflix ha annunciato che ci saranno una terza e quarta stagione, nonostante l’uscita di scena di Escobar, che avranno il suo focus sui banditi del Cartello di Cali. La sfida e ancora più stimolante visto che la serie perderà il suo “Tony Soprano”, ma la struttura e l’immaginario fabbricati fanno ben sperare.