Da sempre il cinema è rimasto affascinato dalla città di Roma. Da un lato, metaforicamente parlando, abbiamo una “madre” plurimillenaria, che si può permettere di passare storicamente, architettonicamente e culturalmente dall’epoca classica imperiale al periodo bizantino, dall’epoca rinascimentale e papalina fino al fascismo e dall’altro lato abbiamo il “figlio”, il cinema, di fatto l’arte più giovane, novecentesca che in Italia è sempre entrato in stretta dialettica con la città eterna.
Il primo film a soggetto italiano, girato nel 1905 da Filoteo Albertini, è girato a Roma in un periodo in cui il cinematografo ricerca la sua collocazione nel mondo delle arti e ha come titolo La presa di Roma. È un film che ci racconta l’episodio risorgimentale della breccia di Porta Pia utilizzando la tecnica dei tableaux vivants, mutuata dal teatro. Il 1895 è la data convenzionale che vuole la nascita del cinematografo dopo la proiezione di dicembre al Cafè Chantant di Parigi dei fratelli Lumiere. Saranno proprio Auguste e Louis Lumière, con il realismo (L’uscita degli operai dalla fabbrica o L’arrivo del treno) a stabilire le coordinate del cinema realista mentre dall’altro lato sarà Georges Melies a instradare il genere fantasy. I Lumière verranno anche a Roma, ma vista l’esigenza del cinematografo di prediligere soggetti dinamici (collegamento con il Futurismo), inquadreranno Roma più come civitas che come urbs con riprese fugaci e spontaneiste.
Il Kolossal e la Roma del Fascismo (Anni ‘10/’20/’30)
Già con gli anni del muto, Roma, offre due possibilità espressive al cinema, da un lato il suo set a cielo aperto e dall’altro le ricostruzioni in studio, dai capannoni Cines fino a Cinecittà negli anni Trenta. Con Cabiria di Giovanni Pastrone, del 1914, si inaugura la fortunata stagione del kolossal che ha in Roma una musa ispiratrice sul versante delle location mitiche, classiche e riconducibili al periodo dell’Impero. È un film importante visto che, grazie alle didascalie realizzate da Gabriele D’Annunzio, il cinematografo si affianca alle altre altri, viceversa precedentemente veniva visto dall’intellighenzia come un’arte troppo popolare, di bassa lega.
In questo periodo il cinema italiano esporta cultura salvo poi entrare negli anni Venti in un periodo di forte crisi; è un momento che coincide con la scalata al potere di Benito Mussolini che, raccogliendo i malumori e lo scontento degli Arditi, di fatto i reduci della guerra del 15 – 18 (la cosiddetta “vittoria mutilata”), organizza il 27 ottobre 1922 la marcia su Roma e mette le mani sulla penisola.
Da qui in avanti il cinema sarà strumento della propaganda fascista, prediligendo temi di stampo militaresco mentre Roma, e sempre nel suo taglio Imperiale e classico, sarà un set perfetto per le innumerevoli fasi ideologiche costruite a tavolino dal Duce con i documentari dell’Istituto Luce. Un altro genere che ha molto successo e che vede Roma come spazio espressivo è il cinema dei telefoni bianchi. Un cinema che ha nella commedia il suo punto di forza, con arredamenti decò e una struttura fissa, in cui il benessere e la vita dei protagonisti è strumentale alla propaganda fascista per coprire la reale e drammatica situazione italiana all’interno del secondo conflitto mondiale. è un genere che tuttavia non sfrutta Roma nella sua bellezza e forza, vivendo soprattutto di riprese in interni.
Il Neorealismo (Anni ’40)
Con il Neorealismo, che parte convenzionalmente con Ossessione di Luchino Visconti del 1943, abbiamo la Roma del dopoguerra e il cinema si riappropria fortemente dell’ambiente urbano come indispensabile scenografia. Siamo lontani dall’industria cinematografica americana, in cui tutti le fasi per la realizzazione di un film vivono di compartimenti stagni, viceversa nel Neorealismo la sceneggiatura è aperta, gli attori non sono professionisti, le storie sono drammatiche ma cariche di speranza e il bianco nero diventa mezzo espressivo per raccontare la tragedia della guerra e voglia dell’Italia di guardare al futuro. Roma diventa spazio reale ed espressivo al tempo stesso, centrifuga che tritura le nevrosi del protagonista in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica del 1948 o teatro drammatico in Roma città aperta di Roberto Rossellini del 1945.
Le strade deserte, i palazzi bombardati, la luce radente che illumina i guasti della guerra, mostrano una Roma reale e ci sono poi i volti della sua gente smagriti e gli occhi frebbicitanti. Per trovare un corrispettivo oggettivo bisognerebbe ritornare all’arte di Caravaggio, in cui la luce e il realismo dei soggetti raffigurati attualizzano la loro condizione bypassando codici o simboli precedenti. (La Madonna come povera trasteverina affogata).
Le visioni del Neorealismo hanno poi precise coordinate anche sul versante architettonico, infatti con Roma città aperta è il quartiere Prenestino ad essere protagonista, in Ladri di biciclette è Val Melaina, mentre con Europa ’51 è Primavalle.
Il cinema d’autore e Roma (Anni ‘50/’60/’70)
Siamo nel periodo di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Michelangelo Antonioni e altri registi che sviluppano un cinema d’autore, caratterizzato da forti stilemi stilistici e con ricadute sul quotidiano a livello ideologico e sociale (soprattutto con Pasolini e Petri). Il quartiere EUR diventa il set dell’Eclisse di Antonioni, mentre in La decima vittima di Petri lo stesso quartiere diventa una città fantascientifica e apocalittica per un gioco al massacro di un fantomatico Grande Fratello che vede come vittime e protagonisti un platinato Marcello Mastroianni e una bellissima Ursula Andress.
Il cinema d’autore non riproduce più la città ma la reinventa, ne stravolge l’assetto, costruendo percorsi nella realtà impossibili, rendendola più vera del vero ed al contempo falsa, o meglio sempre autentica e sempre falsa, sia essa ripresa nella realtà o riprodotta in studio con grande perizia (collegamento agli studi di Cinecittà).
Pier Paolo Pasolini con Accattone, Mamma Roma, La Ricotta, Uccellacci e Uccellini e Comizi d’Amore palesa le mutazioni nella forma fisica della città di Roma, nonché le lacerazioni antropologico-culturali di una umanità “antica” innanzi agli pseudo-valori dell’importata modernità. Roma “stupenda e misera” città pasoliniana emerge in un misto di amore e rifiuto, una passione che, dalla letteratura al cinema, si traduce in una mole di lavori e in una dedizione sfrenata.
FEDERICO FELLINI
In Fellini Roma è una sorta di grande madre, carica di storia e di suggestione preistorica. primordiale, che ti accoglie ma non ti coccola, non ti chiede nulla e non si aspetta nulla. Volendo trovare un’immagine vengono in mente figure come Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Anna Magnani ma è interessante scoprire in Fellini, fagocitato dalle sue visioni e dalle sue nevrosi che sono poi rappresentate nei suoi film, come Roma abbia una sorta di pancione placentario che con il suo “aspetto materno” evita la depressione ma impedisce anche una maturazione, una vera presa di coscienza.
Ad affascinare Fellini è il letargo romano e l’ignoranza, dettata dalla Chiesa e dall’aristocrazia, in cui l’individuo non vuole essere disturbato e gode al pensiero di essere stato partorito da una città eterna e provinciale al tempo stesso. Non solo la bellezza di Roma, viceversa anche il tetro, l’atmosfera spenta, che suggerisce una visione pessimistica, plumbea. Nei film di Fellini ambientati a Roma si trova il personaggio con lo sguardo basso, il sonnolento, il rinunciatario tediato da un infantilismo cronico. E tutto questo schema è dato e incoraggiato dalla Chiesa, vera responsabile di questa tipologia di italiano medio ancorato alle sue debolezze.
La Roma di Fellini è caratterizzata da un’umanità sfiorata con la delicatezza e l’indifferenza del vento in cui è evidente la grande ricerca antropologica e visionaria del regista riminese. Il tutto si gioca su vari piani continuamente in bilico , tra schemi sociali e indicibili o spaventose prospettive psichiche. Fellini descrive nel miglior modo possibile lo spaesamento urbano di una ragazza ne Lo Sceicco Bianco (1952), i poveracci di periferia in Le notti di Cabiria (1957) o le mitagogie di Via Veneto in La Dolce vita (1959).
Roma diventa una lanterna magica che tedia i protagonisti, li scaglia verso una continua e costante eccezionalità. A tal proposito il film ROMA (1972) diventa manifesto di questa linea espressiva e un affresco perfetto dell’idea che Fellini ha della Capitale. Dietro la falsa pista del documentario, la ricostruzione di una immaginaria “FESTA DE’ NOANTRI”, la sequenza della sfilata di moda ecclesiastica, la sfrenata corsa in motocicletta verso la Cristoforo Colombo irta di fari sentenziano la dissoluzione stessa della città, la sua civiltà dissipata, il provinciale che agguanta ogni situazione, l’impossibilità a esprimere opinioni con cognizione di causa e l’agonia del senso, del significato che annulla, violenta l’idea di civitas imperiale.
Nelle prossime immersioni sui rapporti tra cinema e la città di Roma avremo come “ospiti” il poliziottesco e Paolo Sorrentino.