La forza e la ricchezza di un paese si fondano sulla capacità del suo popolo di mantenere vivo nel tempo, per le vecchie e per le nuove generazioni, il ricordo delle tradizioni, aprendosi al futuro utilizzando la memoria e gli insegnamenti del passato. Come per i canti della mietitura o per i riti di passaggio, queste linee del tempo, che pulsano identità e indicano un rigoroso sistema valoriale, diventano connettori emotivi da tramandare ai più giovani. In questo caso si manifesta un cortocircuito dettato dalla Storia e i protagonisti ci raccontano, a bassa voce, la ricerca affannosa di un recupero identitario o forse semplicemente l’imminente voglia di confessare il loro stato d’animo.
L’Albania ha vissuto uno dei regimi comunisti più impenetrabili del Novecento, con un sistema tentacolare gestito interamente dal dittatore Enver Hoxha. Il PPSH e la Sigurimi, l’apparato di sicurezza, scandivano e organizzavano interamente gli usi, i costumi e le abitudini del popolo albanese. Morto il dittatore e crollato il sistema, lentamente il paese ha abbracciato il modello democratico lasciando tuttavia enormi cicatrici nella popolazione. Il musicista Redi Hasa ci fa da Virgilio in quadro e ci racconta della sua esperienza quando, nel 1997, scappò dalla guerra civile per raggiungere le coste pugliesi. Il suo sguardo si connette ad altri artisti, musicisti, cantori che davanti alla m.d.p. mostrano ricordi e rimpianti, ansie e riflessioni. La narrazione non punta esclusivamente a condannare il regime di Hoxha quanto a far emergere la difficoltà di un popolo nel fare i conti con la propria memoria, nel non subire i sensi di colpa e nell’accettare a fatica un momento in cui la Storia ha completamente ribaltato le prospettive esistenziali facendo emergere le contraddizioni.
L’opera della regista Esmeralda Calabria, presentata nella selezione ufficiale fuori concorso del TFF, vive di un linguaggio intimo e discreto. Il protagonista principale, che ciclicamente governa la narrazione, ha nella musica il suo connettore emotivo, quell’elemento che lega le tradizioni della cultura folkloristica albanese al dato esperienziale. I racconti del periodo della dittatura sono giocati con piani ravvicinati in cui la mimica facciale e i sentimenti di chi testimonia la fanno da protagonisti. Le immagini di repertorio entrano ed escono dal quadro e ci raccontano la plasticità dell’apparato comunista con il capo al vertice.
Sono passati quasi quarant’anni dalla morte di Hoxha e l’Albania vive da decenni un nuovo modo di viversi e raccontarsi. Questo documentario ci fa comprendere come ancora molte generazioni stiano rincorrendo a fatica la missione di mettere insieme passato e futuro senza più fare i conti con il senso di colpa e il dolore. Un documentario da scoprire, una cartolina sofferta di un paese in piena vita e in piena maturazione