La prima sequenza è una serie di immagini di repertorio in uno studio televisivo , ce ne saranno tante durante la celebrazione in atto, e racchiude una fetta di storia italiana: c’è il potere, con la figura di Giulio Andreotti che ascolta silenzioso, c’è l’informazione, con Maurizio Costanzo che fa il mediatore e poi c’è l’immaginario cinematografico rappresentato da lui, il press agent Enrico Lucherini. La vita e le sfide di questo personaggio dovrebbero scorrazzare sullo schermo ma forse c’è poco tempo e il tutto rimane in superfice.
Il documentario ripercorre l’esperienza del press agent Enrico Lucherini, capace di inventarsi un mestiere innovativo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in piena Dolce Vita. Sono lontani i tempi in cui a Via Veneto il nostro raccoglieva i giornalisti e li “indirizzava” per i vari scoop, ma lui è ancora in sella con le sue trovate geniali, le battute folgoranti e i ricordi di una vita fatta di eventi sensazionali. È lui a comandare il quadro e indirizzarci in una fetta di storia personale che diventa metafora del grande cinema che fu.
Il linguaggio del documentario a tesi non è originale, abbiamo l’”eroe” che si racconta orgoglioso, e ne ha ben donde, di ciò che ha saputo costruire in più di sessant’anni di carriera. A innervare la liturgia ci sono alcuni suoi grandi amici, da Carlo Verdone al socio Gianluca Pignatelli fino ai fratelli Vanzina, che interagiscono con lui sotto il suo sguardo curioso e vivace. Il pioniere della comunicazione ci parla delle bufale costruite per il Gattopardo, del suo grande rapporto con Sophia Loren, dell’amore di Delon per Visconti e la narrazione procede alternando ricordo e presente.
Dopo circa un’ora e un quarto di documentario a far riflettere lo spettatore sono le parole di Giuseppe Tornatore, di fatto capiamo che, con Lucherini, si ribalta il rapporto delle star, sulla scia dell’esperienza americana, con i media e gli attori non vengono più “protetti” viceversa diventano “preda” dei giornalisti, dei paparazzi. Il resto è una carrellata di emozioni personali, gestite stilisticamente dal regista e critico cinematografico Marco Spagnoli con molto rigore e poco cuore. L’operazione è troppo orizzontale, troppo educata e celebrativa per farci comprendere, con spirito critico e infingardo, il lavoro del nostro e i tanti “colori” caratterizzanti la sua professione.