Nei giorni scorsi è iniziata la settima stagione di Game of Thrones, la famosa serie cult targata HBO emersa dal genio fantastico di George RR Martin e sapientemente strutturata, sul versante seriale televisivo, dagli showrunner David Benioff e D. B. Weiss.
Chi non ha provato orrore e coinvolgimento durante la carneficina del Red Wedding? Chi non ha provato un senso lieto di dolcezza e poi un’immediata tristezza nello scoprire la parabola del grande Hodor? Chi non ha vissuto un elettrocardiogramma emotivo e di giudizio nei confronti di Melisandre? Chi può realmente affrontare l’immaginario di RR Martin posizionandosi in un regime di confine tra bene e male, giusto e sbagliato, bianco e nero? Siamo su un terreno fatto di chiaroscuri, in un mondo dall’involucro medievale e da una progressione armonica che si fa beffe di un’autorità analitica, viceversa siamo al cospetto di un testo che vuole, necessita di un approccio multidisciplinare per essere studiato, apprezzato, approfondito.
Su questa linea si struttura il saggio “Game of Thrones – Una mappa per immaginare mondi” a cura di Sara Martin, ricercatrice in Storia e critica del Cinema presso l’Università di Parma, e Valentina Re, professore associato presso l’Università degli Studi Link Campus University. Partendo dal concetto di mappa e dunque dal primo vero elemento di varco di Game of Thrones, di fatto la sigla di apertura, le due studiose propongono un interessante concerto di mini-saggi su alcuni, non tutti, elementi che hanno reso questo testo seriale tra i più importanti dell’ultimo decennio.
Si parte con l’analisi della studiosa Valentina Bonaccorsi riguardo al mondo storico che fa da base ispirativa a tutta la serie. Scopriamo così l’enorme impasto prodotto da Martin, capace di condurre lo spettatore in un mondo storico, in un mondo medievale senza utilizzare precisi riferimenti, coordinate. In questo modo viene a crearsi un “tempio” storico con all’interno un vuoto che, lentamente, colmano i personaggi. Westeros ed Essos vivono il loro “scenario” strizzando l’occhio a differenti mondi, dall’Egitto dei Faraoni all’Eptarchia anglosassone, dall’Antica Roma alla Grecia sapiente, riflessiva di Socrate e Aristotele. Creato l’involucro, alcune linee strutturali diventano poi fiere debitrici della storia, da qui il parallelismo York-Lancaster/Stark-Lannister, il conflitto massacrante delle prime stagioni che ci riporta alla Guerra delle due Rose o il Red Wedding che diventa preciso riferimento alla storia scozzese e alla Black Dinner del 1440, quando il VI Conte di Douglas, il sedicenne William, viene barbaramente trucidato dai soldati di Giacomo II di Scozia dopo un lauto banchetto. A incrementare il punto di vista della Bonaccorsi ci sono infine due temi con cui relazionarsi: l’albero genealogico e la questione geografica, territoriale. Tutti i personaggi della serie fondano il loro credo sulla necessità di difendere la propria eredità per riuscire a dare continuità al nome della propria casata. Come nel vero Medioevo, qui i nobili per mantenere terre e ricchezze debbono puntare tutto sul primogenito maschio e il primo grande scontro tra i Lannister e gli Stark, che porterà ad una guerra totale in Westeros, nasce dall’ossessione su chi sia, di diritto, l’erede al Trono di Spade. In quest’ottica l’arma principale dei vari Lord diventa il matrimonio combinato tra famiglie potenti, per aumentare il loro blasone e rinvigorire, ingrandire i possedimenti territoriali. Il territorio, lungi dall’essere un elemento tangenziale, diventa determinante nell’economia seriale di Game of Thrones e la studiosa propone un parallelo dei Sette Regni di Westeros (il Regno del Nord – il Regno delle Montagne e della Valle – Il Regno delle isole e dei Fiumi – il Regno della Roccia – il Regno dell’Altopiano – il Regno delle Terre della Tempesta e Dorne) con la situazione venutasi a creare in seguito allo sfaldamento dell’impero romano d’Occidente. Nel 476 Odoacre depone Romolo Augusto e nasce il paradigma romano-barbarico con sette regni: tre di derivazione sassone, tre di derivazione angla e uno di fondazione juta. Infine risulta affascinante la chiusura dedicata al Vallo di Adriano, a cui RR Martin dichiara di essersi ispirato per la descrizione della Barriera, questa sorta di terra di confine che divide il mondo civilizzato di Westeros dal mondo “altro”, e che viene sorvegliata dalla confraternita dei Guardiani della Notte. Questo luogo è la linea drammaturgica in cui si muove uno dei protagonisti della serie: Jon Snow.
Sempre sul territorio, ma con un punto di vista analitico differente, si concentra l’analisi di Stefano Baschiera, lecturer in Studi cinematografici alla Queen’s University di Belfast. Ed è proprio la capitale dell’Irlanda del Nord l’oggetto del suo discorso. Lo studioso ci racconta come la HBO abbia votato questa città come punto nevralgico, produttivo di tutta la serie creando un enorme indotto economico e sociale per tutto il paese. L’operazione è cresciuta esponenzialmente con il successo delle varie stagioni di Game of Thrones tanto da far divenire i teatri di posa della Titanic Studios i più utilizzati negli ultimi cinque anni in tutto il Regno Unito. L’Irlanda del Nord grazie al continuo sviluppo narrativo della serie non solo ha migliorato, raffinato tutte quelle maestranze che governano una grande produzione televisiva (con dieci milioni di euro di spesa per singolo episodio) ma ha visto crescere esponenzialmente il settore turistico, con sempre più persone che hanno desiderio di visitare i paesaggi del Grande Nord e gli studi, gli interni dove Cersei, Tyrion, Jon Snow, Sansa e via dicendo vanno a significare. Parliamo, e Baschiera ce lo fa notare molto spesso, di una serie che non si limita ad una sola location viceversa ha bisogno di moltissime postazioni e tre unità di ripresa (composte ognuna da 150 persone) dislocate nei vari set tra Spagna, Croazia, Islanda, Malta e appunto Irlanda del Nord.
Sul dato emotivo e strutturale dell’opera arriva in soccorso del lettore Sara Casoli, dottoranda in Arti Visive presso l’Università di Bologna. La nostra, considerando Game of Thrones una serie totalmente disforica, ci fa comprendere come lo spettatore/fan nell’interagire con le immagini sia legato all’architettura informativa creata dagli showrunner e non alla narrazione di un evento. Partendo dalla definizione di Greg Smith sui dispositivi testuali, visti come marcatori emotivi della narrazione, la Casoli denuncia la continua imprevedibilità narrativa presente nella serie, in cui lo spettatore (a differenze dei personaggi) viene lentamente abituato a subire qualcosa, a prevedere un determinato evento senza conoscere però i dettagli, le linee guida di ciò che accadrà. La suspense dunque creata dai personaggi, si fa l’esempio di Ditocorto e delle sue varie traiettorie, non viene a montarsi perché lo spettatore sa cosa sta per accadere e dunque va in ansia, viceversa è dettata dall’architettura informativa, dal mood dell’opera che da un lato lo tiene vivo ma dall’altro lato lo abitua a questi passaggi, acclimatando le sue sinapsi. Tre sono gli elementi che concorrono a tale costruzione: la rottura dello scudo del personaggio, la progressione armonica e la narrazione ingannevole. Il primo elemento, trattandosi di una serie con molti protagonisti e dall’afflato dickensiano, sfida le regole classiche di allineamento, identificazione con l’eroe per portare lo spettatore a provare emozione verso un personaggio fino a un determinato climax salvo poi interrompere bruscamente tale relazione, in medias res: Ned Stark docet. Citando Sergej Ėjzenštejn riguardo alla pressione sensoria e psicologica sullo spettatore, la Casoli ci parla anche del “Red Wedding”, in cui vengono eliminate le storylines di Robb e Catelyn Stark e l’arco narrativo è ben lungi dal toccare il climax. La progressione armonica invece dona alla serie la possibilità di creare innumerevoli linee narrative, che funzionano in modo interdipendente o si generano da altre creando innumerevoli sub – plots. Il quadrittico formato da Bran, Hodor e i fratelli Reed per molto tempo non lo si vede tuttavia esso crea empaticamente, progressivamente un forte legame con lo spettatore. Infine c’è la narrazione ingannevole, in cui il castello di scrittura di tutta l’opera dispensa continuamente false prove o segnali portando sensorialmente lo spettatore a non prevedere in maniera efficace la reale evoluzione della trama.
Sara Martin ci racconta invece degli abiti della serie, in cui alla bellezza estetica, alla grande e precisa manifattura fa da contraltare la scoperta, nel dettaglio, di precisi passaggi di sceneggiatura, di fatto simbologie, allegorie che ci danno informazioni sui personaggi e distillano la narrazione di piccole omeomerie informative. Cosi Daenerys non indossa mai gli abiti raffinati di Westeros viceversa con il passare delle stagioni, in concomitanza con la sua crescita come Regina e donna guerriera, si mostra sempre con maggiori drappi. La sua chioma chiarissima osserva, soprattutto a partire dalla terza stagione, abiti molto eleganti che richiamano sempre di più il motivo delle squame di drago. Cersei la vediamo spesso con dei kimono caratterizzati da motivi ornitologici; il suo stemma è il leone, che spesso compare sui suoi abiti per dichiarare forza e potenza. Se in una lunga fetta di serie la vediamo indossare un nero-lutto per la scomparsa del primogenito Joffrey, ecco che nella quinta e sesta stagione questo personaggio cambia definitivamente, in concomitanza con lo scontro con l’High Sparrow. La lunga chioma viene spezzata e la vediamo con un taglio corto, gli abiti scuri e l’afflato militaresco. Sansa infine passa dall’essere una giovane adolescente innamorata, che sogna di vivere a King’s Landing e si diletta con il ricamo e il cucito, a utilizzare abiti che ripercorrono continuamente il suo arco narrativo. Quando sposa Tyrion il suo abito presenta i simboli di casa Stark e di casa Lannister; quando sposa Ramsay Bolton il suo corpo viene completamente assorbito da un lungo mantello; infine, tornata al Nord, si riappropria del suo nome e del suo passato con un abito blu e un meta-lupo Stark ricamato nella parte anteriore.
Con Nicola Stefani, dottorando di ricerca presso l’università di Firenze, è il processo di storyboarding a essere analizzato; una pratica che acquista sempre maggior peso nella struttura fandom di Game of Thrones, con il sito HBO che, ciclicamente e anticipando l’uscita degli episodi, propone una continua interazione della piattaforma digitale con i milioni di fan assetati di raccono. Citando Jenkins, e il concetto di partecipatory culture, Stefani ci fa comprendere come lo storyboard riesca a far emergere il dietro le quinte della serie modificandosi grazie alle potenzialità della rete: se da un lato infatti esso mantiene, cinematograficamente parlando, il suo carattere effimero e sfuggente, dall’altro lato esso diventa un vero e proprio paratesto nell’ingresso sul web, di fatto una sorta di oggetto di lavorazione pronto per essere plasmato dal fan.
Nell’ultima parte di saggio è il concetto di mappa a essere teorizzato e analizzato. Elisa Poli ci racconta le caratteristiche delle principali città che si muovono nel mondo diegetico: King’s Landing e Winterfell sono i due punti nevralgici e i luoghi che dall’inizio alla fine coordinano parte della narrazione. King’s Landing richiama i colori del Mediterraneo ed è l’unica città ad avere quasi mezzo milione di abitanti. La sua Fortezza Rossa è una strabiliante costruzione architettonica in gioco tra torri-minareto, loggiati rinascimentali, richiami gotici e superfetazioni medievali; Winterfell rappresenta il mondo del Nord con roccaforti di piccola dimensione e torri-bastioni collegate da un alto muro di cinta. Luoghi più piccoli ma ugualmente determinanti sono poi Castel Black, The Eyrie, Riverrun e Pyke: in gioco tra questi punti si sviluppano moltissimi sub-plots, dalle azioni dei Guardiani della Notte ai delitti e alle decisioni che si consumano nell’elegante roccaforte di casa Arryn, passando per le scogliere decomposte della rocca-forte delle Iron Islands, dove governa la casata Grayjoy. A Essos viceversa è il mare, i richiami all’esotico a farla da protagonisti. Braavos è costruita, sviluppata come una sorta di Venezia in miniatura con una citazione precisa alla cultura greca e al Colosso di Rodi; Meereen è invece il punto centrale della Baia degli Schiavi e, a differenza dell’ispirazione libera e occidentale di Braavos, risente di quelle monarchie, sottolinea la Poli, in cui la schiavitù condiziona, organizza tutto il sistema sociale. Con le sue piramidi Meereen ci riporta all’epoca dell’antico Egitto, con simbologie sacre che entrano in perfetta dialettica con l’incedere drammaturgico di Daenerys Targaryen. Marta Boni e Valentina Re chiudono il saggio con un focus sul concetto di mappa in Game of Thrones. Molto suggestivo, in questo capitolo, risulta essere il doppio binario di significazione che le due studiose associano alla ricca e tridimensionale sigla d’apertura. Da un lato abbiamo la mappa-descrizione, di fatto una proiezione paradigmatica e riassuntiva dei siti che governeranno la narrazione. Qui si crea l’embrione principale di Game of Thrones fatto di continui riferimenti alla narrazione e allo sviluppo dei vari archi dei personaggi. Simultaneamente il tutto diventa una mappa-racconto, in cui l’occhio dello spettatore inizia ad affrontare un viaggio in movimento tra spazi, itinerari che associano alla visione paradigmatica quella sintagmatica, al tema dello spazio quello del tempo. In questo frangente il percorso, racconto di un territorio si autoalimenta e prende forma mediante il percorso stesso. Il tutto obbliga lo spettatore ad avere e assumere un atteggiamento trasversale, con posizioni ambivalenti e diversi ruoli di fruizione.
In America è già stato fatto molto, in termini di studi analitici, accademici, su Game of Thrones: basti pensare che Harvard propone un intero corso di studi sul Medioevo utilizzando come testo di riferimento l’invenzione di RR Martin. Questo saggio, trasversale e circoscritto, è un primo, importante passo, del nostro mondo accademico, per entrare nelle varie costruzioni, moltiplicazioni di una delle più importanti opere seriali degli ultimi dieci anni.