Di buio ce n’è tanto ma la notte non porta ristoro; il rumore delle ruote dei carri è stato sostituito dalle macchine luccicanti, che ci riportano al cinema di Michael Mann, e nel Tevere non si pescano più delle deliziose spigole ma si raccolgono imprenditori suicidi distrutti dai cravattari. La popolazione di questa Suburra non ha nulla di popolare e la confusione è gestita da un gruppo raccolto di personaggi che passano in rassegna vizi, difetti, orrori, violenze, debolezze senza purtroppo farsi metafora di un tutto. Siamo in un microcosmo solitario e selettivo in continua fase estatica, dove gli avvenimenti sono tanti, forse troppi, e la forza non sta nell’immedesimazione ma nell’immersione, non nello studio nel tempo ma nel piacere estetico veloce e tonante.
La fetta di tempo ci riporta al 2011 con l’arco narrativo che, a mò di percorso seriale a puntate, ci fionda nei sei giorni in cui la politica, la mafia e il Vaticano apparecchiano a Roma un affare da milioni di euro per il litorale di Ostia. L’occhio di Sollima, che alterna perfettamente macchina a mano, macchina fissa, dolly, campi e controcampi, angoli del quadro sfocati, riprese dal basso, corpi ripresi in obliquo o “tagliati”, “smembrati”, violentando in questo modo lo spettatore con la pulsione del visivo, è rigoroso e conscio. Prendendo spunto da vari maestri del nostro cinema, il regista figlio d’arte costruisce visivamente una perfetta astronave visiva per ogni personaggio. C’è il politico corrotto, Malgradi, che vive di primi piani e macchina a mano, in cui si palesa la molteplicità dei registri mimici di Pierfrancesco Favino, che passa dall’orgia con due prostitute, in cui è estatico e radicato nella simbologia del vizio, alle rughe e allo sguardo impaurito dell’ultima scena quando tutto sta per crollare; c’è il boss giovane di Ostia, Numero 8, ripreso spesso di spalle o a figura intera, i cui occhi spiritati vengono sempre condizionati dal mondo esterno, quasi volessero affermare la propria identità mediante la distruzione dell’altro, di ciò che c’è fuori; c’è il Samurai, ultimo pilastro della Banda della Magliana, continuamente incastonato in una glaciale fissità sindonica mediata dal giaccone nero che, quasi come un mantello, fumettizza il suo spudorato e vergognoso potere; c’è lo zingaro Anacleti che, come un novello Trimalcione, viene spesso inquadrato nel caos della sua villa, con la lingua che gli fuoriesce e che denota ingordigia di potere e lotta per l’affermazione; c’è Sebastiano, forse il personaggio con meno sfumature, che si occupa di pubbliche relazioni e che , nel suo incedere dinoccolato e raccolto, produce azioni che sanno di viscidume e pulsione di morte. Infine c’è il mondo femminile, quasi sempre condizionato da quello maschile, rappresentato dal cigno Viola, la ragazza tossica di Numero 8, che ricorda la valchiria Rosario Dawson di Sin City in alcuni passaggi, il cui volto investito di continui dettagli va a decomporsi, livellarsi verso la fine del film per la resa dei conti e dalla prostituta Sabrina. Quest’ultima è eros e perversione nella prima parte, con il suo corpo nudo montato continuamente dal Malgradi, e viceversa paura e senso di abbandono dal secondo atto in poi, quando Sollima al corpo sostituisce lo sguardo, gli occhi, i capelli sfibrati e il senso di tristezza.
Siamo dunque in un mondo in cui i personaggi sono ben raccolti in una giostra estetica di primo livello dove sono chiari i riferimenti a Sorrentino, al poliziottesco, allo stesso Sollima di Romanzo Criminale. La musica è pompeiana, estrema nella volontà di idealizzare coloro i quali dovrebbero mangiucchiarsi tutto il potere presente nella Capitale. Il problema tuttavia risiede nell’incapacità della sceneggiatura di consegnare all’istinto visivo, alla pulsione estetica una base di ricerca per riflettere, per comprendere: da qui la frenesia animalesca e fastidiosa di Anacleti, le risorse inaspettate e repentine di Viola, la poca profondità nel conoscere la geografia corruttiva di Malgradi, la passività a volte eccessiva di Sebastiano, che non riconsegna allo spettatore il fardello della sua condizione di ricattato perenne. Volendo fare un esempio pratico, è come se ci trovassimo di fronte ad una casa molto bella le cui fondamenta tuttavia scricchiolano. Volendo entrare su un versante più specifico, e come se in House of Cards, godendo a pieno del piacere visivo della storia, non riuscissimo a entrare nella psiche di Underwood e dei suoi “compari”, non riuscissimo di fatto a fare nostra tutta una serie di intrecci psicologici, dettati da tempi, dialoghi, pause, riflussi, che alfabetizzano la lotta ideale, personale e di potere dei personaggi. La Suburra di Sollima non alfabetizza il proprio mondo, non concede allo spettatore un vocabolario corposo per entrare nel proprio mondo, per prendere quello che succede e riportarlo sul reale o quantomeno nella Suburra stessa post- apocalisse. L’immersione è bella e totale e peccato solo non ci sia spazio per nuotare e ricordare.