Il cinema è pieno di oggetti simbolici, dalla Lancia Aurelia di Bruno in Il Sorpasso alla valigetta di Pulp Fiction. Qui è Excalibur a prendere la scena: condiziona, volteggia in aria, emerge dalle viscere della terra, affetta l’acqua torbida dei grandi laghi d’Inghilterra. Tuttavia, pur non avendo la mission di far riflettere, essa diventa metafora della troppa linearità, prevedibilità della pellicola.
Londinium, Alto Medioevo. La pace tra Re e Maghi è ormai agli sgoccioli, soprattutto a causa della bramosia di potere di Vortigern, fratello del Re. Quest’ultimo viene assassinato con l’inganno e il piccolo Artù, suo figlio e il vero erede al trono, è costretto a fuggire. Ora la corona è sul capo dello spietato e sanguinario Vortigern, che semina il terrore per mantenere lo status quo. Solo Artù, cresciuto e inconsapevole dei suoi poteri, potrà salvare l’Inghilterra dalla rovina.
Ancorata al genere epico-fantasy, la pellicola è caratterizzata da una fotografia cupa metaforizzante il nostro contemporaneo; il ritmo narrativo non concede troppe pause e la cifra estetica è di buona qualità. Montaggio serrato, flashback repentini, zoomate, ralenti in dialettica con aggressive accelerazioni dei fotogrammi, di fatto elementi di linguaggio da sempre presenti nel vocabolario del regista Guy Ritchie, pungolano continuamente lo spettatore, in particolar modo nelle numerose sequenze action. I luoghi di significazione sono gli squallidi sobborghi della Londra romana, avvolta da rovine classiche decadenti, dove scopriamo la maturazione del piccolo Artù e Camelot, il luogo del potere dove verrà a sublimarsi la cifra, da eroe classico, del protagonista. Il film però, attento più alle soluzioni che ai procedimenti, palesa un livello di scrittura basico, in cui non si manifesta, da parte del progetto narrativo, la voglia e la necessità di approfondire il trattamento dei vari personaggi. Ciò avrebbe esaltato il grande sforzo estetico che avvolge eroi e antieroi nel loro arco di significazione.
Ennesima rilettura del mito di Arù, quest’opera è sostenuta da un cast da Oscar per gli effetti speciali ma resta ferma al guado per la troppa linearità dell’intreccio. Risente di tutto questo soprattutto il personaggio di Vortigern, interpretato da un Jude Law leggermente in confusione tra Lenny Belardo, nel suo afflato iconico, e Macbeth, per i dissidi interiori.