La maggior parte dell’opinione pubblica, addetti ai lavori o semplici appassionati, è concorde nell’indicare, in questi ultimi quindici anni, la serialità televisiva con il termine Golden Age. Un mondo del racconto che ha tolto il berretto degli anni Ottanta e Settanta, in cui il “telefilm” si accartocciava su se stesso, fidelizzando il pubblico sulla base della soluzione, e a scapito del processo, per mostrarsi con dovizia di particolari mediante mondi finzionali sempre più ricchi e affascinanti.
In questo slittamento ormai consolidato gli Stati Uniti, di fatto l’America ha giocato un ruolo determinante riuscendo, mediante la teoria dei vasi comunicanti ontologici, a trasferire la lanterna magica da Hollywood alla televisione. Il tutto in un paese che da sempre racconta e sostiene il pensiero occidentale. Sin dalle tracce scritte lasciate dal conte di Toqueville, l’America diventa la culla della democrazia moderna, della libertà di stampa, delle opportunità pronte per coloro i quali abbiano talento, in sincrono continuo con le riflessioni, le sudditanze e le aspettative del Vecchio Mondo. L’industria cinematografica diventa un potente mezzo per forgiare l’immaginario collettivo creando nel corso dei decenni una tradizione mai entrata in crisi, che ha sapientemente raccontato il Novecento e il flusso inarrestabile di traumi, scenari, mosaici. L’America quindi sa raccontarsi continuamente e sia che si tratti di forme superficiali, l’intrattenimento, o di forme più ragionate, il giornalismo d’inchiesta per esempio, riesce a fidelizzare fette sempre più grandi di fruizione. Il dato più interessante sta nella capacità di compiere ciò anche in momenti di crisi, da qui la nascita della Golden Age seriale che cresce e raggiunge la fase della maturità in un momento in cui l’America retrocede, come peso specifico, nella geopolitica internazionale. Come ha giustamente teorizzato il politologo Dominique Moïsi, il soft power dell’America continua a progredire, nel momento in cui l’hard power si indebolisce considerevolmente.
Con soft power si intende quel sottotesto continuo, in questo caso d’immagini in movimento, che pubblicizza il mondo americano e lo traduce attraverso i suoi eroi finzionali. Quest’’ultimi albergano mondi molto spesso apocalittici, in cui il sistema si regge attraverso scenari continuamente minacciati, minacciosi, disumanizzati in cui è costante il senso di morte, la paura, l’ansia e la paranoia. Come continue sono le ombre che si annidano negli ultimi cinquant’anni di storia americana, da Scientology ai preti pedofili, dagli esperimenti al plutonio alle menzogne dell’industria del tabacco, dalla questione mediorientale al secondo emendamento e via discorrendo, così la serialità americana trasferisce nell’anatomia dei propri eroi i fantasmi e la sporcizia della propria società. Mediante l’eroe e il contesto esaltante le sue azioni, questo trionfo apocalittico si fa flusso di racconto continuo aiutando tutto il sistema a pubblicizzarsi, con la fabbricazione di sogni e immaginario.
È interessante notare come testi seriali quali Vinyl, 22.11.63 e Il Caso O.J. Simpson riescano a dispiegare tale schema muovendosi all’interno di un doppio binario. Premettendo che il cinema è pieno di ricostruzioni storiche o versanti biografici, qui siamo a un livello di risonanze e struttura di grande qualità e forza. Se da un lato restiamo affascinati dal vocabolario vitale dettato dagli eroi in quadro e dalla messinscena, da qui il superomismo di Richie Finestra, l’indagine ansiogena di Jake Epping/James Amberson e la ricostruzione affannosa e in itinere degli omicidi di Nicole Brown Simpson e Ronald Lyli Goldman, dall’altro lato è determinante la virulenza con cui gli autori di questi testi proiettano lo spettatore nel Novecento americano. E qui entra in gioco il vocabolario storico, dove si apparecchia il soft power e scatta la fascinazione, la testimonianza, la descrizione della cultura a stelle e strisce. Una cultura che riesce a raccontarsi mediante le proprie debolezze e grandezze, mediante la schizofrenia degli anni Settanta e del rock and roll, mediante il trauma del primo Presidente assassinato brutalmente o attraverso un personaggio pubblico di enorme successo che decapita nel vialetto di casa la sua ex moglie e riempie di coltellate lo stomaco del presunto amante di lei. Restando fermi a una lettura d’impostazione, e tralasciando le singole scelte di linguaggio, parliamo di tre testi seriali che racchiudono fette enormi d’immaginario strumentalizzando la cronaca e il dato storico. In 22.11.63 tutti sappiamo dove ci troviamo e cosa sta per accadere tuttavia l’eroe finzionale ci ci fa da continuo Virgilio nel caos della Guerra Fredda. Epping/Amberson, vero strumento del soft power, ci conduce nella società americana bigotta degli anni Sessanta e, legandoci allo schermo con il gusto vintage, il recupero storico e l’intreccio da romanzo, fa passare continui messaggi su un mondo fatto di molestie, intimidazioni, spaventi, persecuzioni, calunnie, diffamazioni. In Vinyl tutto il mondo del rock anni Settanta diviene estensione delle turbe e delle nevrosi del protagonista principale, anche lui Virgilio che esorcizza le proprie debolezze mediante la droga, il fallimento, il pericolo, la menzogna. Con Il caso O.J. Simpson l’operazione si fa ancora più raffinata, visto che gli autori riescono a giocare continuamente con il dato storico, a volte traducendolo in maniera perfetta come impostazione in quadro e sovraccaricandolo poi con il romanzo. In realtà a nessuno interessa di capire come andrà a finire la prima stagione di questa serie, viceversa è continua la fascinazione verso gli anni Novanta, verso le cravatte variopinte di Cocharan e Shapiro o i continui riferimenti tra Marcha Clark e l’attrice che interpreta il suo personaggio, una bravissima Sarah Paulson. Il soft power si ciba di questo sogno sullo sfondo di un caso di duplice omicidio efferatissimo che ha dimostrato quanto in realtà sia instabile, precario e votato al denaro il sistema giudiziario americano. Due forze quindi, il dato storico e il dato finzionale, che si uniscono creando un intreccio che libera la mente con il romanzo ma che allo stesso tempo fluidifica la storia americana con fatti realmente accaduti che sottendono le enormi contraddizioni del popolo americano. Dato storico che poggia infine graniticamente su grandi macrostrutture percepibili e immediatamente riscontrabili, di fatto la musica, la politica, il Jet set e i media.
In conclusione il soft power americano presente nella serialità televisiva, in questo caso descritto attraverso tre testi prodotti di recente, ha trovato un terreno teoricamente infinito in cui agire e condizionare. Theodore Roosevelt amava citare lo scrittore inglese John Bunyan e il suo “Viaggio del pellegrino” per descrivere i cosiddetti muckrakers, gli “scavatori di fango”, di fatto i cronisti. Nel libro un uomo non riesce a guardare altro che in basso, da qui il suo rastrello e il letame da spalare. Sopra la sua testa gli viene offerta una corona celeste in cambio del rastrello ma lui, non alzando lo sguardo, continua imperterrito a passare al setaccio il fango. Con la nuova serialità americana la corona celeste e il rastrello si fondono diventando oggetto dello sguardo dello spettatore.