Ci sarà sicuramente capitato, in questi giorni di Fase 2, di “ritrovare” quel mondo esterno che per quasi due mesi avevamo abbandonato; quel modo di vivere che avevamo bruscamente interrotto e non a causa nostra. Una delle prime reazioni istintive di full immersion sarebbe stata quella di abbandonarsi alla piena libertà emotiva riguadagnando un terreno che, inconsciamente, sentiamo nostro su vari livelli: affettivo, lavorativo, sociale, culturale. La realtà però è ben diversa, con un trauma alle spalle e con un nuovo modo di riconfigurare il nostro essere animali sociali all’interno delle varie strutture del nostro spazio. I divieti, le mascherine, la stanchezza degli sguardi o l’eccitazione di passeggiare nuovamente, l’attesa davanti al supermercato e le preoccupazioni per il futuro, sono piccole omeomerie di un nuovo luogo di iniziazione e maturazione.
Nella storia più recente, di fatto quella del XX secolo, c’è un episodio che ha goduto, nel corso dei decenni, di un importante storytelling da parte della politica e della cultura, e che ha diviso intere generazioni sia sul versante dell’atto in sé sia sul versante della successiva storicizzazione. Il Vietnam, la guerra del Vietnam, la sconfitta del Vietnam, sono stati un trauma allo stato puro per gli americani, e per il popolo vietnamita nella sua interezza. Una guerra capace di provocare innumerevoli tentacoli esistenziali, dalla guerra civile tra vietnamiti al collasso delle strutture democratiche americane, dall’incapacità di gestire le derive della Guerra Fredda alle scelte inconsapevoli non di uno, ma di ben quattro presidenti americani capaci di mandare al massacro intere generazioni.
“Ritrovare” Apocalypse Now in questi giorni potrebbe essere uno stimolo a comprendere come l’essere umano sia fondamentalmente abituato a riconfigurare le sue esplosioni emotive, senza un assetto tra buoni e cattivi (tipico del cinema americano), ma con la consapevolezza di affrontare un viaggio nelle profondità del nostro animo. La full immersion targata Coppola è una continua evoluzione, una continua ricerca emotiva per la piena libertà, per quel desiderio che spesso viene disatteso o traumatizzato sul più bello. Come il nostro presente affronta un necessario recupero di ciò che era, avendo tuttavia la frustrazione che tutto invece sarà nuovo e inedito, così Apocalypse è stato film e vita nella psiche e nelle pulsioni coppoliane. Un travaglio continuo, dal dato produttivo alle aspettative, dal chiaroscuro dei tormenti del regista alle difficoltà riscontrate durante le riprese.
Fabula e intreccio ci raccontano il road movie del capitano americano Willard, contattato dal comando militare e dai servizi in quel di Saigon e pronto a partire per una missione segreta: dovrà trovare e uccidere il Colonnello Kurtz, che si trova negli inferi della giungla cambogiana dove, si presume, abbia rigettato completamente la divisa per creare, con ribelli ed ex marines, un nuovo ordine fecondativo fatto di riti pagani, sacrifici e cannibalismo. Siamo nel 1969, l’anno della staffetta Johnson–Nixon e dell’estrema militarizzazione americana del suolo vietnamita imposta dal Generale Westmoreland, e il personaggio di Willard si dimostra sin da subito dilaniato al suo interno. In compagnia di altri giovani soldati, che diventano metafora della ricchezza e delle contraddizioni della cultura americana, Willard dovrà guadare il fiume Nung e infiltrarsi poi nell’organizzazione di Kurtz. Il viaggio, che si affronta sulla tipica imbarcazione americana “da Vietnam”, la Patrol Boat, River, diventa per Willard un’eterna, sinuosa, sofferta, onirica preparazione all’incontro finale con Kurtz, nel momento preciso in cui la sagoma del Colonnello emerge dal buio palesando un nuovo ordine delle cose. L’incontro tra questi due esseri umani, il “capitano” e il “colonnello”, diventa l’atto finale di un racconto sull’uomo e sul mondo.
Apocalypse Now è un kolossal che sembrerebbe aderire, in materia di plot, perfettamente al testo originario, quel Cuore di Tenebra di Conrad, in cui l’Africa diventa il Vietnam e in cui emergerebbe un’attualizzazione del racconto di Marlow. Tuttavia l’opera di Coppola sprigiona una libertà autoriale, fatta di scelte stilistiche, di un lavoro sofferto e evidente a livello di montaggio, di un fantastico che si dipana con la voce off di Willard o di uno sguardo feroce alla storia della guerra, da qui il campo-controcampo spesso mediato e manipolato, in cui è impossibile non percepire quel senso di libertà e privazione dello stesso regista.
Tutti i personaggi di questo film affrontano un percorso con un’estrema difficoltà. Abbiamo il giovane teenager freddato in pochi secondi che non potrà più “raccontarsi” alla madre; abbiamo lo stesso Kilgore che, nonostante rappresenti la schizofrenia dei comandi militari americani in Vietnam, vive l’impossibilità a surfare, o a recuperare la sua tavola, in maniera traumatica. Tutte le stazioni di questo viaggio sono delle vere e proprie fasi: gli elicotteri che diventano delle valchirie, le playmates sporche di fango, l’amore di una notte al calar della sera e l’attraversamento di un ponte. Tutte le fasi diventano nuovi generi cinematografici, dalla commedia al road movie, dal dramma storico al film di guerra, dall’opera in costume al film apocalittico. Una tavolozza da recuperare, di fatto una ricerca esterna che diventa ricerca interiore, con la consapevolezza che parliamo di un film che apre una nuova fase, un nuovo viatico per il cinema. C’è un prima e un dopo Apocalypse Now sulla base di un universo iconico occidentale in cui l’uomo è colui che schiaccia, rimpasta e rimodella le sue continue e necessarie paure.