Il processo evolutivo di GOT ha avuto vari passaggi nel corso della sua storia e Close up ha sempre indagato il suo storytelling, tra analisi testuali e approfondimenti. Qui di seguito riportiamo un’analisi settoriale sulle lievi mutazioni di tre ambiti specifici dell’ottava stagione: la sigla, la sceneggiatura e lo spazio diegetico. Tale lettura, lungi dall’essere esaustiva dell’enorme ontologia del testo seriale, vuole concedere al lettore alcuni spunti di riflessione.
Sigla – il campo si riduce e il focus aumenta
Nel corso degli anni la sigla di GOT è divenuta, rispettando la lieta specificità della serialità televisiva, un vero e proprio terreno di culto. In questa ottava stagione, sin dalle prime immagini, si realizza ciò che fa parte del derma rinnovato da Benioff e Weiss. La barriera è crollata, è venuta meno, si è aperto un enorme varco nello spazio geografico; quest’ultimo rappresenta, in forma sintetizzata, sia le coordinate di Westeros, Essos e Sothoryos, sia la struttura genealogica delle antiche casate, di fatto la federazione dei Regni. Il dolly che attraversa la frattura, la crepa, ci fa comprendere che nulla sarà come prima, che quel “monolite” delimitante un tutto ora è inesorabilmente metafora di un “prima” e un “dopo”. Lo sguardo in digitale della m.d.p. si è fatto più stretto, gli angoli, le vallate ghiacciate, i torrioni che vanno a formarsi, le segrete che pulsano storia abitano un punto di vista più ravvicinato, quasi lo spettatore dovesse comprendere che il cerchio va inesorabilmente a chiudersi. Da qui i nuovi ingranaggi psicologici di Daenarys, costretta nella sua missione di Regina giusta che la stritola sul versante della violenza, da qui l’amore sofferto di Snow, con quel cuore nuovamente vivo che verrà spazzato via dalla “Ragion di Stato”, da qui l’obiettivo ultimo di Tyrion di salvaguardare la coscienza collettiva di tutta la serie e divenire memoria storica in quadro, da qui le nuove incursioni esistenziali di Sansa e Arya. La complessità assume una forma sintetizzata e le relazioni interpersonali non vivono più di elettrocardiogrammi continui viceversa affrontano una linearità, una sistemazione. Nella sigla tutti gli interni vanno a sistemarsi, dal lungo tavolaccio reale di Winterfell al trono di King’s Landing ed è qui che il concetto di mappa, tanto caro a GOT, abbandona la riconfigurazione, il suo divenire fluido per farsi stabile testamento, e quel suono che aumenta i suoi registri al finale potrebbe esserne la conferma. Una sigla dunque con un occhio più attento, con un atteggiamento condensante dove la testimonianza delle precedenti stagioni è evidente sul versanti iconico e di linguaggio quanto distante sul versante del punto di vista e della scelta analitica.
Sceneggiatura – un mondo verboso che si stabilizza annullandosi
Qui le scelte di scrittura debbono privilegiare la risoluzione dei vari conflitti, delle varie tele che per otto anni hanno caratterizzato il mondo narrativo. Tale esigenza ha consegnato un mondo maggiormente verboso, maggiormente informativo che non può permettersi di sviluppare molti momenti di riflusso. In quest’ultimo ambito le “ballate” di GOT vengono meno, quei momenti in cui i protagonisti, colorati dalla colonna sonora e dalle bellezze naturali, si consegnano alle atmosfere, alle passeggiate, agli sfoghi emotivi senza dover per forza di cose innervare il concept verticale. L’unico personaggio che riduce la verbosità è Cersei, che rimane in attesa, sorta di tarlo simbolico che tedia le azioni della lega formata da Daenarys. Il personaggio interpretato magistralmente da Lena Headey, “accerchiata” lietamente da Qyburn e “The Mountain”, è il simbolo dell’attesa una volta eliminato il plot Il Signore della Notte. Questo ottavo capitolo dispone di pochi esperimenti e fa emergere una base che va via via formandosi mediante il concetto di band reunion, in cui tutti i protagonisti si ritrovano a innervare, custodire, preservare i legami stabiliti senza dover ripartire da zero, di fatto azzerare tutto e tornare alle origini. In mezzo ad un mondo particolarmente verboso, che ha tolto la ballata, GOT spettacolarizza gli snodi drammaturgici concedendo molto alla laterna magica visiva e gli esempi più fulgidi sono la guerra contro I Morti e la mattanza di King’s Landing. I personaggi più importanti vivono isole simboliche cristallizzate che via via vanno a liquefarsi, stabilizzarsi come quel Trono; su questo versante Tyrion si stabilizza sul continuo ragionamento interiore, Snow si stabilizza sulla perdita dell’oggetto d’amore e Daenerys si stabilizza, allontanandosi in volo, dalla sua ossessione. È forse questo il punctum, quella piccola fessura che fa transitare tutti i personaggi a nuovi, ritrovati, originali punti di approdo.
Spazi – interni tra fuoco, attesa e paura
Molti degli eroi sono protagonisti di questa scena: c’è Jaime Lannister, lo Sterminatore di Re, c’è suo fratello Tyrion, Primo Cavaliere di Daenarys, c’è Brienne di Tarth, che di lì a poco sarà nominata cavaliere, c’è Ser Davos, il contrabbandiere omerico e poi c’è lo scudiero Podrick Payne. Quest’ultimo inizia a cantare con il suo volto, in gioco tra luci e ombre, illuminato dal fuoco dell’enorme camino. La voce di Payne illumina le coscienze e le paure dei vari personaggi, un travelling si muove tra lo spazio e ci conduce, in montaggio alternato, alle fasi che precedono l’imminente scontro con l’esercito dei Morti. Mentre siamo catturati dalla melodia, dei dolly ci portano in giro per gli spazi di Winterfell, tra Immacolati che si dispongono chirurgicamente, sguardi di affetto tra Sansa e Theon, baci appassionati tra Missandei e Verme Grigio o occhiate a ciò che “sta arrivando”, come nel caso di Ser Jorah. Torniamo tuttavia allo spazio iniziale, con quel camino che illumina la band e i protagonisti, disposti in semicerchio, che attendono; è questa una situazione che spesso si configura nell’orizzonte diegetico di GOT 8, una continua condensazione visiva in interni in cui i personaggi si ritrovano a confrontarsi e pensare a ciò che sarà. In questo confronto è chiara, rispetto alle precedenti stagioni, una diagnosi al limite, con tutti i personaggi investiti di grandi responsabilità, dovute alle varie back stories. La condensazione spaziale diventa metafora dell’animo dei protagonisti, che non possono più permettersi di seguire l’istinto e la libertà di pensiero, in questo solo il personaggio di Arya potrà avere maggiore spazio di manovra. Gli interni si sono fatti più scuri, visualizzano i moti dell’anima tra ricerca medievale e assorbimento dei conflitti in previsione della risoluzione finale. Spazi che si raccontano attraverso il fuoco e la neve, che pulsano fuoco e neve e che vengono a frantumarsi, sciogliersi, distruggersi sempre attraverso il fuoco e la neve. Come gli occhi di Snow si caricano di paura nell’abbraccio finale alla donna amata, così le paure dei personaggi si consumano, si riconfigurano in dialettica con lo spazio della diegesi. Uno step ulteriore questo che certifica la potenza visiva, di linguaggio, plurale di una tra le serie più importanti dell’ultimo decennio.