La sinossi del cortometraggio “recita”: questa è la storia di un padre e di un figlio che hanno troppi segreti. Ma presto li scopriranno. In realtà, e qui parliamo di un’opera di un certo spessore, i due personaggi diventano metafora ed estensione dell’animo umano in gioco tra solitudine, rimpianto, istinto animalesco, vertigine e senso di vuoto.
Il ragazzo spaccia droga mentre il padre è un poliziotto. Il primo ha come unico obiettivo spingere, insieme all’amico, più fumo possibile mentre il secondo si palesa solo alla fine, per mettere fine ai giochi. Siamo in un giorno di ordinaria follia in una città russa che spersonalizza, fagocita sogni, speranze e si sistema per gustarsi la tragedia finale.
The Smoke, primo cortometraggio del regista russo, classe 1991, Ivan Plechev è un racconto poetico e crudo, gestito sul versante della condensazione e che porta in dote una narrazione scarna, ridotta all’osso, quasi fosse una carcassa di Soutine. Come gli occhi del ragazzo persi nel vuoto ci riportano al tempo fermo dei personaggi cechoviani, così lo sguardo fisso e la voce cavernicola del padre colorano una tavolozza fatta di sentimenti atavici, senza punti di riferimento. Non bisogna comprendere ma solo assistere a ciò che sta accadendo in quadro. Quello sguardo, fugace e senza motivazione, del ragazzo ad una giovane donna è il testamento morale di un mondo in decomposizione, dove anche un padre e un figlio non hanno più motivo di viversi, amarsi. Ad aumentare l’efficacia del film c’è la città, un posto buio, minaccioso, quasi distopico in cui i contorni risultano essere poco definiti; un posto senza nome, senza coordinate, in cui governano suoni diegetici completamente anarchici.
Un cortometraggio che ha entusiasmato il giovane pubblico del Giffoni grazie ad un’ evidente cifra autoriale e ad un’urgenza di racconto mai banale. Plechev ha il dono della sintesi, non ama il superfluo e si porta dietro tutta la grande tradizione della sua terra.