Si parla di Expo sui giornali o in internet da voi? … In realtà poco …; a sostenersi sul bancone del chiosco arancione e verde ci sono delle fresche Heineken e il tutto è perimetrato da un italiano, il sottoscritto, due francesi e un inglese. A rintuzzare il discorso ci pensa la formosa Stella, la barista, che ricorda la protagonista di La Vita di Adele: Anche in Olanda se ne parla poco … è una festa tutta italiana. Siamo nel padiglione Olanda e già il fatto che in dieci metri siano rappresentati quattro paesi europei potrebbe smentire i ragazzi; siamo in un luogo molto originale visto che l’Olanda, a differenza degli oltre centocinquanta paesi ospitati, ha deciso di organizzare il proprio spazio all’aperto, sacrificando un’imponente architettura a vantaggio dell’atmosfera: tanti piccoli caravan creano dei motivi circolari e la gente può ordinare gustosi hamburger di carne o vegan, patatine fritte e numerose tipologie di birra. Di stranieri, che animano il Cardo e il Decumano, ce ne sono tanti e, soprattutto verso sera, affrontare il percorso diventa difficoltoso vista la grande quantità di teste che ondeggiano e si muovono in un turbinio di luci, suoni e spettacoli. Siamo in un grande Luna Park: qui gli oggetti si mostrano e immergono totalmente l’individuo esaltandolo da un lato e narcotizzandolo dall’altro. Il tema è ormai di dominio pubblico da mesi, di fatto il cibo e la sostenibilità nutrizionale che il Mondo dovrà configurare per i nove miliardi di uomini previsti per il 2050. Un elemento, il cibo, che sviluppa ed entra nel percorso sensoriale in dialettica con l’ altro elemento, la riflessione, che dovrebbe aumentare la nostra conoscenza su ciò che sarà, su ciò che dobbiamo realmente fare per migliorare il nostro stile di vita e la nostra salute. E sul cibo scatta lo stupore: in ogni angolo il nostro sguardo viene catturato da installazioni che avvolgono profumi, come nel padiglione belga, dove patatine fritte ed enormi birre ghiacciate segnano il varco; nel padiglione francese le baguette e i dolci scivolano via in quantità industriale mentre Eataly, colosso che dovrebbe fungere da vocabolario culinario della nostra intera Italia, svetta con 20 box che rappresentano le nostre regioni e sfornano prodotti tipici dalla mattina alla sera. Si fanno due passi e il sapore della carne rumena arrostita precede l’hamburger di zebra che si prepara nel padiglione dello Zimbabwe, mentre a pochi metri c’è la carne argentina che si scioglie in bocca. Dallo stupore poi si passa alla ricerca, di fatto l’ingresso nei padiglioni che, come enormi Moloch del nostro tempo, sovrastano la fiumana di gente in fila per scoprire la didattica dei singoli paesi. In questi momenti è tanta l’attesa e il piacere giunge dall’osservare le originali architetture, come l’enorme struttura in scatole di legno della Polonia, la sfera dell’Azerbaigian, il trittico a sifone dell’Argentina, la parete verticale con innumerevoli piante di Israele, le pareti richiamanti le dune desertiche degli Emirati arabi e via discorrendo. Il tempo di attesa toglie energie ma è tanta la soddisfazione nell’attimo dell’ingresso che quasi non ci si rende conto che allo stupore iniziale, dolcificato da continui passaggi e cambi di ritmo, si sostituisce lentamente una condizione di totale passività gestita dalla dittatura del video. Fatta eccezione per pochi paesi, come il giardino shakespeariano polacco o l’alveare inglese, in ogni padiglione è il video a fagocitare la mente o l’occhio del visitatore. Sono lontani ovviamente i tempi di quando Louis Daguerre mostrava personalmente a Parigi la funzionalità di ciò che sarebbe diventata la macchina fotografica, come sono lontani i tempi di un rapporto paritario tra chi mostra e chi osserva. La manualità in questa Expo2015 è quasi del tutto assente, ed è il video a gestire ogni singolo passaggio condizionando il percorso e lo storytelling; come se ci trovassimo nell’incipit di Minority Report o nell’ufficio di Howard Stark, ecco che veniamo continuamente lobotomizzati da narrazioni, immagini, passaggi repentini di luci, fasci colorati e oscurità, ricreazioni in 3D di elementi naturali, enormi sale dove i suoni e i pixel governano le descrizioni e in questo l’essere umano, le persone non hanno voce in capitolo; la frustrazione è doppia, perché anche chi lavora all’interno dei box, chi di fatto dovrebbe presentare la manualità, la forza del percorso didattico, è ridotto a semplice Mercurio, a semplice controllore di tempi e spazi mentre sul suo capo incombono continui video. È questa forse la condanna più forte che emerge dal mondo Expo, rendersi di fatto conto che siamo completamente soggiogati al potere delle immagini di qualsiasi dimensione; vediamo cornici in ogni punto e subito, come gli operai di Metropolis, ci infiliamo ad osservare lo schermo ma il tutto è talmente veloce e caotico che scordiamo, che non riusciamo a riflettere, che abbiamo più a cuore la foto con lo smartphone che osservare con i nostri occhi ciò che ci circonda. Alla luce di ciò, EXPO2015 reitera la condizione generale dell’Occidente, il fatto che ogni nostro singolo momento di vita debba essere mediato e filtrato dal video. Tutto questo genera una sonnolenza critica che uccide la riflessione e non offre spunti per un reale dibattitto sul nostro futuro e su ciò di cui avremmo realmente bisogno. Creazione e distruzione, stupore e condanna, concentrazione e distrazione, spersonalizzazione e dittatura del video, sono queste le continue doppie significazioni che pulsano nel cuore di questa Esposizione Universale made in Italy, dove i bambini sognano lietamente e gli adulti si lobotomizzano inconsapevolmente.