Pur essendo giovane, sul dato anagrafico e nello spirito, Daniele Ciprì potrebbe tranquillamente essere il manifesto di una fetta di storia che Eric J. Hobsbawm ha teorizzato donandole il nome di “secolo breve”. Il Novecento, che sia la pellicola piuttosto che la sala cinematografica, che sia Fellini piuttosto che la musica jazz, diventa, per l’autore siciliano, la prima base d’immaginario mediante la quale ci si apre palesando poi una ragionata urgenza di racconto. Quest’ultimo procede a strati fondando la propria liturgia su vari punti fermi che abbiamo cercato di indagare in questa intervista. Autore eclettico e sempre in movimento, Ciprì è anche co-direttore, con Roberto Nisi, del Corto Dorico Film Festival, una rassegna, arrivata quest’anno alla sua quattordicesima edizione, che indaga il linguaggio del cortometraggio in dialettica con le varie forme del visivo.
Se dovesse utilizzare la metafora del ciclismo, quale corsa a tappe o grande classica, sarebbe il Corto Dorico Film Festival e per quale motivo?
Potrebbe essere una grande classica, visto che si tratta di un festival che si è specializzato, con il tempo, ad analizzare il mondo del cortometraggio e a sviluppare sul tema una costante riflessione. Parliamo di un festival fatto da giovani e pensato per i giovani, per quegli autori che hanno talento e che stanno per entrare nel sistema produttivo. Potremmo utilizzare anche la metafora sportiva del salto in lungo, una disciplina molto specifica, perimetrata come il Corto Dorico Film Festival.
Siamo dentro l’attività crossmediale: che futuro immagina per questo festival?
Quest’anno abbiamo scelto come tema principale l’immaginario e abbiamo avuto tanti ospiti tra cui Elio Germano, che ha sviluppato un laboratorio permanente su tutto ciò che fa parte di questa parola così complessa. Viviamo in un’epoca in cui l’immagine domina il nostro quotidiano e lo fa in maniera confusionaria e con i toni da cartolina, tutto questo svuota molto spesso il contenuto annullando la riflessione. In sostanza si fanno film, opere dal valore estetico elevato ma tutte simili, forti nella fascinazione sul pubblico quanto deboli nella lettura del contemporaneo. Il Festival continuerà a riflettere e lo farà grazie alla grande passione di tanti giovani che condividono l’amore per le immagini in movimento.
In questa edizione avete presentato, tra le tante cose, un focus sulla musica rap. Quest’ultima non crede sia molto vilipesa, strumentalizzata dal contenitore televisivo?
Secondo me si. La televisione, e parlo da incompetente e non da professionista del settore, è predisposta per strumentalizzare qualsiasi arte o forma di racconto. Pensiamo soltanto al processo, meccanismo crudele del gioco dei pacchi, in cui è lo stesso concorrente carnefice di se stesso. Inoltre è schiavizzata dall’auditel e quindi cerca di corrompere anche la musica rap, che in questo momento sta avendo successo tra i giovani. Infine, essendo schiava del ritorno numerico, la televisione non rischia mai, da qui la sua indifferenza totale nei confronti della vera musica, dal jazz alla classica.
Da regista, che fase storica sta vivendo il cinema in generale?
Una fase particolare, in cui si sta modificando tutto il sistema delle immagini. Dopo aver visto un film dovremmo tutti quanti chiederci: mi sono emozionato? Mi resta qualcosa dopo questa storia? Molti film italiani, pensando alla storia, potrebbero tranquillamente durare venticinque minuti, di fatto sono dei cortometraggi che si espandono con la soluzione estetica caratterizzata da bellissimi movimenti di macchina, grandi location e fotografia perfetta. Il cinema ritorni a far riflettere, ritorni ad avere al suo interno il confronto sulle cose. Noi al Festival cerchiamo questo tipo di approccio, lontano dal calcolo del box office e contro la democratizzazione del cinema, del suo essere, di fatto, sempre più “americano”.
Come si è andata modificando, negli ultimi anni, la percezione delle immagini da parte di chi guarda?
I nuovi mezzi tecnologici hanno modificato tutto il nostro rapporto con le immagini. Prima c’era un forte versante di analisi, anche inconscia, di colui che andava a vedere un film. Si andava in una sala cinematografica, si vedevano persone sconosciute, ci si informava sul film da vedere, si osservava il monolite bianco, si “odorava” la visione di un film. Ora invece tutta la percezione è organizzata per divorare i contenuti, partendo da uno schema o considerazione fissa: che bella immagine.
I suoi film e i suoi scritti presentano una radicale stratificazione di senso: che consiglio darebbe a un giovane studente deciso a conoscere la sua opera?
Ai miei studenti dico sempre di andare per strada a osservare le persone o di passeggiare lungo San Pietro a Roma per studiare la luce. Il mio cinema parte da un preciso assunto: osservare la realtà portandola poi nel proprio immaginario. Quest’ultimo è caratterizzato dall’evocazione, dalla memoria che si distanzia dalla citazione. Questa pasta si forma lentamente e mediante i non-luoghi, quel surreale in cui le forme si decontestualizzano recuperando il loro senso originale. Tutti i miei personaggi si nutrono del mio vissuto, di quei ricordi che entrano in dialettica con la scrittura.
Il cinema potrà ancora avere, come nel Novecento, lo status di documento storico?
Tutti i film, con il passare del tempo, hanno un loro scopo involontario quindi credo di sì. Sarà forse più complicato visto che molti film, come già specificato, sono purtroppo uguali.