A quanto pare, la gente di cinema di quel periodo era sempre occupatissima a far follie a ripetizione, senza prender fiato. La leggenda trascura un fatto solo: la paura. L’eterna paura, nevralgica, quasi erotica, che da un momento all’altro il sogno dorato si dissolvesse nel nulla. Sono le parole di Kenneth Anger che leggiamo nel suo “Hollywood Babylonia”, tra i primi piani di Lilian e Dorothy Gish e un’immagine dall’alto di installazioni, baracche e fumi: il set a cielo aperto della Babilonia di David W. Griffith.
Nell’ultimo affresco di Damien Chazelle, che si fionda nel presentarci gli eccessi della prima golden age hollywoodiana, un vero e proprio mondo in movimento che frigge al sole della California, l’esperienza cinematografica, della visione, presenta diverse tematiche: la seduzione della settima arte, la costruzione del mito, l’inesorabilità del tempo che passa, l’ideale di gloria tipico dei primi anni Venti del Novecento, la nostalgia che, tra un rito orgiastico e i suoni martellanti di un tamburo, attanaglia tutti i protagonisti. Quest’ultimi, dalla talentuosa attrice Nellie LaRoy (Margot Robbie) alla star Jack Conrad (Brad Pitt), passando per il tuttofare Manny Torres (Diego Calva) e il musicista jazz Sidney Palmer (Jovan Adepo), presentano un costante paradosso, di fatto si nutrono e vivono di cinema ma non potranno mai possedere realmente il loro oggetto del desiderio: il loro biglietto, come direbbe Sartre, è di sola andata.
Siamo nel bel mezzo del deserto e un serpente si agita alla rinfusa nella polvere. Qualcuno, non diciamo chi, ha stabilito che ci dovrà essere una lotta con l’animale, sempre più frastornato tra i fari delle auto e una miriade di corpi seminudi in preda ai fiumi dell’alcool. Ombre e forme si agitano davanti alla macchina da presa e uno zoom tira dritto verso il volto di Jack Conrad: il suo sguardo osserva la scena, i suoi occhi vivono lo stupore e la paura, è un attimo in cui la velocità nevrotica del film placa i suoi bollori per farsi riflessione. Lo sguardo di Conrad testimonia un elemento che sarà determinante durante le tre ore di proiezione: la paura della scomparsa.
Chazelle affida alla giornalista Elinor St. John la teorizzazione di ciò che porta in dota la settima arte; sarà lei a far aprire gli occhi a Conrad, quest’ultimo sarà una stella morta, vivrà tra mezzo secolo nel ricordo di un bambino che si imbatterà nel suo volto e lo sentirà vicino. La scomparsa, la paura della scomparsa, attanaglia i personaggi del film sin dalle prime sequenze, quando un enorme elefante potrebbe fra crollare verso il basso il povero Manny. Il desiderio dell’oggetto da possedere viene declinato in maniera diversa a seconda dei personaggi.
Nellie vive, nei movimenti selvatici e nel suo continuo spiazzare lo spazio con la danza, in un perenne stato euforico, fatto di up and down, e per non scomparire cerca in tutti i modi di lasciare una sua traccia, un suo marchio. Lo farà dal primo minuto di narrazione, urtando con la macchina una povera statua neoclassica, fino all’ultimo quando sarà protagonista al quadrato, in una festa dai toni (solo per questa volta!) più raccolti, di un lungo bacio in bianco e nero.
Sidney esorcizza le sue ansie aumentando continuamente l’analisi sulle performance, da qui una costante, ciclica, aggressione verbale ad uno dei suoi partner musicali, quest’ultimo reo di non innalzare il livello qualitativo della musica. Inesorabilmente questo personaggio, con il passare del tempo, va spegnendosi, e i suoni della sua tromba diventano testimonianza del vuoto che precede la sparizione.
Conrad, il personaggio incaricato maggiormente di creare versanti citazionistici durante la narrazione, non ha bisogno di creare un elettrocardiogramma visivo e anche i suoi movimenti non necessitano delle velocità o dello strappo. È sempre l’ultimo ad arrivare alle feste, si presenta, causa sbronza, spesso in ritardo sul set e si dimostra dolce e comprensivo nel rincuorare le nevrosi del suo caro amico George.
Conrad è il meno esplosivo tra i personaggi, sembrerebbe essere l’unico protagonista capace di comprendere realmente ciò a cui tutto il “carrozzone” sta portando. I suoi passi in scena si nutrono di una radicalità che, nonostante alcuni “graffi”, stimola la riflessione e il silenzio. Nelle scene sul set, quando lo vediamo protagonista di quel cinema muto che sta venendo meno, è quasi sempre fisso davanti alla m.d.p., incastonato nelle sue stesse paure che lo porteranno a danzare verso l’oblio.
Infine Manny, il garzone che si fa produttore esecutivo, che ama il cinema e che tenta in tutti i modi di creare un ponte tra lo spettatore e i resti di un’umanità allo sbando. Come esorcizza la sua paura Manny? Durante tutto il film è il personaggio che pensa più di tutti, è il meno istintivo, di fatto il più cerebrale, colui il quale risolve i problemi sul set e si fa carico, causa amore, delle fatiche esistenziali portate costantemente in dote da Nellie. Se quest’ultima è selvatica, se Sidney è perennemente insoddisfatto e Conrad affida allo stupore le sue emozioni, ecco che Manny, appunto il più umano, fonde tutti questi elementi distillandoli nel corso della storia. I suoi occhi sgranati, le sue corse sul set, la scelta di chiudere con il passato, la volontà ostinata di crearsi un futuro artistico urtano un destino già scritto a tavolino, già sceneggiato. Manny interroga le sue azioni, analizza le situazioni e forse è l’unico personaggio che umanamente accetta la deriva, accetta quindi di scomparire, di tornare ad una condizione lontana dalla Babilonia.
I danzatori di Chazelle non concedono pause e forse l’autore stesso, rincorrendo le sue liete ossessioni visive e narrative, vuole portarci ad afferrare senza pause i suoi quadri visivi. Nella danza sfrenata, tra le pieghe del primo mondo mitologico dell’era moderna, ecco che possiamo apprezzare variazioni su un tema esistenziale: la scomparsa.