Esistono momenti, fasci di tempo nella storia italiana in cui la radicalità di un conflitto politico, sociale, culturale, diventa la miccia per far esplodere idee, suggestioni, dinamismo creativo. Tale paradigma ha trovato spesso un approdo nel corso dei secoli fino ad arrivare al Novecento, in quel ventennio che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta in cui ogni singolo strato della società italiana viene investito da una forte conflittualità, che non ha nulla di paragonabile in alcun altro paese occidentale. Questi tuttavia sono anche gli anni di una grande fioritura artistica che parte, idealmente, con Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone e si conclude con il romanzo Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco; sono passaggi storici questi in cui l’Italia esporta cultura, in cui il tema culturale diventa fondamentale per dichiarare, legittimare una propria scelta di campo radicale. Tutto questo avviene mentre le città esplodono, dalla strage di Piazza Fontana (1969) fino alla strage di Bologna (1980).
Confluisce, e lo fa rivoluzionando il rapporto dei suoi personaggi con lo spettatore, in questa fase storica il talento di Tomás Quintin Rodriguez, il nostro Tomas Milian, il nostro Nico Giraldi, il nostro Er Monnezza. L’attore cubano è morto lo scorso mercoledì per un ictus, all’età di 84 anni, a Miami, senza esaudire il suo ultimo desiderio, di fatto tornare a visitare e respirare l’aria di Roma, quel mondo che tanto aveva dato, in termini di affetto e spazio scenografico, alla sua carriera.
Bello come il sole, Tomás nasce a Cuba, nel 1933, in una famiglia patriarcale dell’alta borghesia cubana. Il padre è un generale della giunta Machado, che di lì a poco verrà spazzata via dal colpo di Stato “dei sergenti” di Fulgencio Batista. Imprigionato e poi scarcerato, in preda alla depressione si toglierà la vita sparandosi un colpo di pistola alla testa di fronte al figlio. Per il piccolo Tomás questo trauma sarà devastante e lo porterà lontano dalle sue radici, dove risiedono le sue urgenze: fare l’attore, dare voce al suo talento recitativo. Siamo negli anni Cinquanta e il nostro si iscrive all’Actor’s Studio di Elia Kazan e Lee Strasberg; inizia con piccoli ruoli da belloccio nei serial televisivi fino all’incontro con Jean Cocteau, che se lo porta in Italia al Festival dei due Mondi di Spoleto dove recita in Il poeta e la musa di Zeffirelli. Per lui si aprono le porte del cinema autoriale italiano, con collaborazioni che vanno da Lattuada a Visconti, passando per Pasolini, Cavani e Maselli.
La sua ascesa presso il grande pubblico inizia però a metà anni Settanta, con i sottogeneri, divenuti poi fondamentali nella storia del cinema, di fatto lo spaghetti western e il poliziottesco. In quest’ultimo Milian, immerso in città arcaiche e tentacolari che trasudano violenza, affina il suo talento costruendo il personaggio di Sergio Marrazzi, detto Er Monnezza, un delinquente dall’animo buono. Lentamente tale personaggio diventa il Commissario Giraldi, per la regia di Sergio Corbucci, per una serie fortunata di film che sbancano al botteghino tra cui La banda del gobbo, Delitto al ristorante cinese, Delitto sull’autostrada e Delitto in formula uno. Immerso in cemento e asfalto, questo personaggio, affondando molto anche nella parodia, si muove in un’Italia a nervi scoperti frastagliata e paranoica dove il valore narrativo della violenza e l’omogeneità stilistica ampiamente riconoscibile donano una struttura fortemente di genere. Sono gli anni questi della P38 e Milian, in salsa trash, ci racconta perfettamente quelle inquietudini.
Gli ultimi anni della sua vita lo vedono presenziare, in ruoli minori, nel cinema d’autore americano con collaborazioni con Oliver Stone, Steven Spielberg e Steven Soderbergh. È il bravo regista Giuseppe Sansonna a raccontarci tutta la sua vita e le sue emozioni nel passaggio della vecchiaia con il documentario The cuban Hamlet, andato in onda nel 2014 per RaiMovie. Ci lascia un attore talentuoso che sarà sempre associato a un periodo irripetibile della storia italiana e a un genere capace di inglobare al suo interno, in maniera onnivora, i tanti linguaggi prodotti in quel periodo.