Queste lente settimane del nuovo anno stanno mostrando, sul satellite giovanile, una rabbia repressa e un istinto famelico nel voler gridare il proprio punto di vista di contro al solito “sistema”, ai poteri forti, di fatto allo Stato. La protesta violenta dei movimenti studenteschi per la morte del diciannovenne milanese Ramy Elgaml, il fantoccio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara bruciato a Torino, i monumenti imbrattati di vernice rossa sono solo alcuni episodi che segnano un autunno/inverno caldo. Studentesse e studenti sembrerebbero aver definitivamente occupato, al tramonto del primo quarto di ventunesimo secolo, ciò che era appannaggio del proletariato agli inizi del Novecento, della classe operaia degli anni Sessanta e dei movimenti no-global di inizio Duemila. Giovani scontenti che non si sentono rappresentati o semplicemente vorrebbero riconfigurare l’idea stessa di rappresentanza, memori che nel recente passato ogni forma di lotta ha incontrato, sul lungo periodo, il fallimento, la resa, il rigurgito sistemico, la restaurazione. Su questa base come si pone il nostro cinema, che sembrerebbe, ormai da tempo, aver perso la capacità di raccontare il reale?
Due opere, una del 2023 e l’altra del 2024, potrebbero accompagnarci in una riflessione sullo stato delle cose: Mia, del regista Ivano De Matteo, e Il ragazzo dai pantaloni rosa, della regista Margherita Ferri. Il primo film racconta la parabola tragica della protagonista, una splendida e dolce ragazza che, a causa di stalking e revenge porn, si suicida mentre il secondo, tratto da una storia vera, narra il disagio di Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo a scuola, che lo porterà ad impiccarsi.
Il primo elemento da analizzare è il nucleo familiare: nel film di De Matteo questo microcosmo è unito e viene da un ambiente semplice, in cui l’amore e le attenzioni verso la ragazza non sono mai mancate. Il padre, interpretato da Edoardo Leo, e la madre, interpretata da Milena Mancini, durante la narrazione sprofondano nella disperazione e nell’impotenza nel vedere la propria figlia annullarsi per il suo primo fidanzato, lo stalker e violento Marco; nel film della Ferri invece il nucleo genitoriale, interpretato da Claudia Pandolfi e Corrado Fortuna, lentamente, durante la narrazione, va separandosi innestando dei traumi nella sensibilità del ragazzo. Tratto dall’omonimo libro della madre di Andrea, il film ha il suo turning point principale quando la donna gli regala dei pantaloni rossi che la lavatrice scolorirà in rosa. Il ragazzo non farà una piega e, indossandoli a scuola, sarà oggetto di scherno e atti di bullismo da parte di alcuni compagni. Se nel film di De Matteo siamo catapultati nel disagio e nell’angoscia di un padre e di una madre che vivono un vero e proprio percorso negli inferi, con il silenzio di Mia che diventa testimonianza di un’incapacità nel comunicare le proprie paure, nel mondo di Andrea invece la comunicazione esiste, nonostante sia un adolescente in piena tempesta ormonale, e la tecnica narrativa della sua voce fuori campo che ci racconta le sue emozioni è una chiara impostazione empatica verso lo spettatore. Il silenzio di Mia e i racconti di Andrea sono due forme di disagio, di lotta, verso le quattro mura di casa e il linguaggio della m.d.p. lo certifica con spazi chiusi, stretti e routinari per quanto riguarda la ragazza mentre aperti, chiari, accompagnati dalla musica nelle cuffiette, per quanto riguarda Andrea. La famiglia è il primo campanello di allarme, con la poca comunicazione, di fatto il dialogo ridotto al minimo o il lento sfaldarsi di un nucleo che assottiglia i punti di riferimento, spaesando e confondendo.
Il secondo elemento diventa il contesto, l’esterno, il sistema. Nei due film il primo amore e i pantaloni rosa diventano le chiavi per scardinare una selva in cui l’istituzione scolastica, il mondo dei social media e una società assoggettata sempre di più al registro performativo spesso presentano storture, falle e criticità enormi. Ogni epoca o decennio, pensando solo all’Italia, ha avuto le sue angosce e problematiche, pensiamo ai giovani Arditi del Ventennio che seminavano paura e violenza o alle fasi del terrorismo rosso e nero dove anche un abito, un’acconciatura facevano la differenza per essere gambizzati in pieno giorno. Ora siamo nella fase del totale scollamento tra realtà e virtuale, con l’immagine e la performance che esaltano una società cinica, un enorme Squid Game in cui il dentro o fuori diventa essenziale. Mia è vittima di un video che il suo carnefice ha fatto circolare tra gli amici, coprendo il suo dolce volto di vergogna e ansia. Andrea invece è additato come diverso, non rientra nel sistema e per questo motivo innesca paura e va combattuto con il bullismo, con la violenza fisica e psicologica. L’istituzione scolastica su questa base ne esce sconfitta, praticamente assente nella deriva di Mia ecco che diventa contenitore, raccoglitore inconsapevole di tutte le infezioni sociali e mediali dei giorni nostri nel caso di Andrea. Quest’ultimo è costretto a vivere la sua giornata scolastica come un corpo estraneo, e le inquadrature certificano il suo disagio con primi piani continui sullo sfondo di una classe dove i versi di Leopardi o Il fanciullino di Pascoli non riescono a coprire l’immersività dell’offesa di genere e di una tecnologia che monta il pettegolezzo e il razzismo. In tutte e due le pellicole la figura del docente risulta praticamente assente, di fatto non ci sono figure adulte che osservano, analizzano o semplicemente testimoniano le varie linee narrative. Il contesto, l’istituzione diventa un altro grande problema che va a sommarsi alle mura amiche e condiziona, veicola e ingigantisce il disagio.
Infine abbiamo le immagini in movimento, la scelta registica di raccontare non solo il disagio ma anche, conseguentemente, il finale tragico. Da questo punto di vista le due pellicole prendono strade completamente diverse. In Mia l’immagine è cruda, la capitolazione finale è un colpo allo stomaco che conclude un iter narrativo asfissiante, claustrofobico. Tanta la dolcezza del volto della ragazza quanto la crudezza degli eventi, sono questi i due poli in cui si muove la m.d.p., di fatto un realismo che è cifra stilistica per tutto il tempo della pellicola. Nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa invece la messinscena è caratterizzata da spazi ampi, da movimenti di macchina che concedono respiro, quasi a voler metaforizzare la sensibilità di Andrea, la sua voglia di stare al mondo e di essere accettato, anche quando le cose stanno precipitando. I cromatismi delle due storie divergono, creano percorsi differenti sulla base di un disagio comune, di una problematica molto frequente nel mondo dei giovani.
Quest’ultimi sono nati e cresciuti in un mondo nuovo post-undici settembre, in cui alla globalizzazione economica si sovrappone anche una globalizzazione culturale, molto spesso veicolata dal tessuto parallelo (ma ormai sovrapponibile al reale stesso) dei social media; queste forme di comunicazione hanno “ricostruito”, sulle vecchie ceneri novecentesche, le relazioni interpersonali e il modo stesso di vivere l’intelligenza emotiva. Sia Mia che Andrea non riescono a incanalare questa intelligenza, non riescono a trovare una sintesi tra ciò che accade nei vari contesti analizzati prima e ciò che sentono, vivono nel loro registro intimo. È questo il fil rouge che lega queste due pellicole al disagio giovanile, l’incapacità dei nostri ragazzi di creare un ponte emotivo tra il dentro e fuori, tra l’attesa e la realizzazione, tra sogni e realtà, tra frustrazione ed equilibrio. Che sia solo una fase di passaggio? Molti riferimenti culturali stanno cambiando e lo spaesamento dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze è ormai un dato di fatto, ancor di più in un’Italia che invecchia e che stancamente cerca di mantenere esclusivamente, come amava denunciare Montanelli, il suo corporativismo.
Il cinema con queste due pellicole ha mostrato, sia sul versante della fiction, con Mia, sia sul piano della testimonianza storica, con Il ragazzo dai pantaloni rosa, la lotta di due giovani di contro al movimento/ritmo precario della nostra società, del nostro sistema. La loro lotta giovanile, pagata con il gesto più estremo, è un campanello d’allarme, una fusione tra arte e vita vissuta che non può e non deve essere ignorato pena l’ingresso in un buco nero dove forse già ci troviamo tutti quanti.