Labirinti … Venezia81

Labirinti … Venezia81

Dopo le tante lune passate a progettare la sua creazione, con delusione trovò l’essere plasmato dal suolo fatto di polvere ed erba, incapace di parlare o camminare … appena in vita. Una bicicletta corre veloce e si perde lungo le curve mentre una Panda rossa diventa stasi di fronte alla bellezza del mare. Un cinghiale tocca nervosamente i nervi scoperti mentre una cavalletta si gode ancora il profumo d’estate.

Sono grandi amici Francesco e Mimmo, da quando erano uagliuni e giocavano, litigavano e si nascondevano tra le vie del paese in Calabria. Passate tante estati, ecco che Francesco, studente a Roma, inizia ad interrogarsi sul suo posto nel mondo; le parole di un libro impolverato, Labirinti, diventano la chiave per sognare ad occhi aperti e configurare un necessario registro identitario. Dall’altro lato Mimmo non comprende la sensibilità del suo amico, nella sua semplicità trova conforto nel cameratismo, nelle sigarette e nella birra con gli amici, in un tempo senza fine che asciuga energie e curiosità. La sessualità e il giudizio, un mondo da scoprire e il rintanarsi nelle abitudini, la provincia e la metropoli marcheranno per sempre la distanza tra i due lasciando alla memoria il filo rosso che fu.

Come le anime di Francesco e Mimmo si abbracciano per poi staccarsi, così il linguaggio della m.d.p. vive su due piani differenti. Un versante documentaristico, con macchina a mano, ci mostra la bellezza del borgo calabrese, di un’estate senza tempo in cui riti religiosi, pagani, marcano il passo e i volti scavati, i corpi in quadro albergano il quotidiano. L’altro piano appartiene al mondo di Francesco, la staticità dei p.p. e dei p.p.p. testimonia la necessità del nostro di abbracciare, nel sogno labirintico, quell’informe che fluttua e ha bisogno di diventare materia, pena la scissione identitaria. Il protagonista, interpretato da un sindonico Francesco Grillo, ricorda, con la sua plasticità, il pasoliniano Enrique Irazoqui de Il Vangelo secondo Matteo, testimoniando di conseguenza un autentico e silenzioso registro intimo. L’utilizzo del dialetto radica lo spettatore alla realtà viva del paese portando via via a considerare la pellicola anche come vero e proprio documento, testamento visivo di una cultura.

La provincia dà e la provincia toglie; su questo dualismo, che crea il versante basico di questi amici, il regista Giulio Donato costruisce il suo racconto sincero e stratificato. Si nota la capacità di raccontare le emozioni con un preciso linguaggio, quest’ultimo all’interno di una cornice che pulsa il cinema di respiro europeo della seconda metà del Novecento. La malinconia della memoria diventa vero e proprio personaggio e tenere fede alla propria identità è salvezza o condanna.

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