Le notti magiche in questo caso lasciano il posto alle notti, precisamente alla notte spesa interamente in commissariato; intanto l’Italia calcistica è ferma e non si da pace per la lotteria dei rigori contro l’Argentina di Diego. I tre protagonisti sono stati scelti per rappresentare, stereotipare un mondo di mezzo in cui emerge tutta la giovinezza, i sogni, le paure e le frustrazioni di un autore del nostro cinema.
Roma, estate 1990. Mentre si sta disputando la partita dei mondiali Italia–Argentina, tre ragazzi sono convocati in commissariato per l’uccisione del noto produttore cinematografico Leandro Saponaro. Un mese prima i tre giovani sceneggiatori si sono incontrati, nelle vesti di finalisti, al Premio Solinas. Antonino, siculo e intellettuale, ha sviluppato una sceneggiatura su Antonello da Messina, Giovanni, toscano e perennemente arrapato, ha scritto la storia tragica di un operaio di Piombino mentre Eugenia, ricca e depressa, si è ispirata a un attore francese che ama visceralmente. I tre vengono scaraventati nel mondo romano del cinema, tra produttori stanchi, attori falliti, ghostwriter ammucchiati in stanze fumanti, registi spiritati e starlette ingenue. Il loro senso di impotenza a creare, la loro frustrazione lentamente dovrà fare i conti con la realtà, mentre su Saponaro il cerchio va stringendosi.
L’opera di Virzì ci racconta, malinconicamente e con tre personaggi molto stereotipati, una fase di passaggio del cinema italiano. Da un lato i tre giovani sceneggiatori, poco approfonditi ma fortemente riconoscibili in superficie, sono un’espansione simbolica dell’autore, che in loro recupera la sua esperienza, insieme anche alla Archibugi e a Piccolo, di sceneggiatore di belle speranze nella Roma di quel periodo. Di contro il bersaglio diventano coloro i quali hanno fatto grande il cinema italiano ma che ora si mostrano alla m.d.p. stanchi, cinici, affaticati, mefistofelici. Su questo versante il film è una continua citazione selvaggia in cui ritroviamo, evocate, figure come Monicelli, Scarpelli, Risi, Fellini, Suso Cecchi D’Amico. Giocando su un filo sottile tra malinconia e critica, Virzì sembrerebbe non aver trovato la chiave giusta per dosare il suo punto di vista, da qui l’ingresso, nella seconda fase del film, di figure speculari ai protagonisti che non arricchiscono il testo viceversa confondono le acque, non concedono allo spettatore la possibilità di seguire i personaggi, riflettere su quel mondo che sta affrontando una delicata fase di passaggio. Infine la città di Roma, splendida nei totali, risente di un’impossibilità ad emergere come protagonista simbolico e avvolgente.
Parliamo di un film che conosce bene le pulsioni del suo autore, che si mostra interamente come espressione visiva, linguistica di tutto ciò che l’autore ha vissuto; in questa delicata operazione tuttavia si perde organicità, il cinema italiano ne esce con le ossa rotte e i protagonisti non riescono a ritrovare il modo di accompagnare lo spettatore nella loro declinante parabola. Detto questo, una menzione speciale va fatta al talento sconfinato di Giancarlo Giannini, che propone un Saponaro elettrico e ardito che cattura lo sguardo.