Quando, intorno al 1450, nasce Jheronimus Bosch, al secolo Jeroen van Aken, siamo in pieno Rinascimento italiano, quella Wiedergeburt che riuscirà a irradiare, con nuovi stilemi in storia dell’arte, anche in Germania, in Francia, in Inghilterra e nei Paesi Bassi. Proprio dall’Olanda arriva questo grande pittore, precisamente dalla cittadina di Den Bosch, situata al confine con il Belgio e all’epoca tra i più importanti centri del ducato di Brabante, quest’ultimo in mano ai duchi di Borgogna. Il Rinascimento di Giotto e Michelangelo, di Bramante e Leonardo Da Vinci, creerà una nuova epoca, un limbo di bellezza che si pone al centro tra l’”oscura” età di mezzo, caratterizzata dalla paura e dal tema della fede, e la “luce” della modernità e del pensiero, di fatto una nuova immagine dell’uomo e del mondo circondante lo stesso. Nel profondo nord, l’Umanesimo oltrealpino si ciba di pittori italiani, basti pensare a Albrecht Dürer e al suo capolavoro Gesù fra i dottori, in cui emerge chiaramente il magistero di Leonardo da Vinci con la figura del Cristo che si pone come oggetto dello sguardo mostruoso di un dottore rugoso e insidioso, metafora del pensiero chiuso e dogmatico.
Il limbo e la mostruosità sono due dei tanti elementi caratterizzanti l’opera di Bosch, un artista più volte esposto all’esegesi altrui e che via via, nel corso del tempo, ha portato numerosi studiosi ad approfondire il suo universo idillico, demoniaco e inquietante al tempo stesso. Un documentario, dal titolo Bosch. Il Giardino dei sogni, è uscito nelle sale italiane nelle giornate del sette e otto novembre aprendo nuovamente un dibattito sul pittore che dura da secoli. Quali sono le spinte immaginifiche di Bosch? Come può un solo pittore avere una monstratio talmente ricca di stupore e contraddizioni? Come può uno studioso, un appassionato di Bosch, raccontare e analizzare l’opera del pittore olandese? Partendo e avendo come oggetto di studio Il Giardino dei sogni, quel Trittico delle delizie che troneggia al Museo del Prado di Madrid, il documentario sfrutta l’immersione polifonica nel quadro mediante l’analisi di vari studiosi e artisti che ci raccontano le loro sensazioni osservando l’opera. Tra questi abbiamo il compositore Ludovico Einaudi, il poeta Cees Noteboom, il saggista Orhan Pamuk, il romanziere Salman Rushdie. Partendo dal lato sinistro del Trittico, in cui osserviamo in primo piano il Cristo che tiene la mano di Eva con un estatico Adamo che li osserva, il documentario inizia il suo ritmo analitico puntando sulla figura del Primo Uomo, che sembrerebbe essere in preda ad una sorta di allucinazione, sogno in cui si manifestano le numerose creature e i mondi del quadro. Pur sviluppando un discorso trasversale, ragionato e suggestivo, basti pensare alla lettura della parte alta del giardino acquatico in cui le architetture di cristallo anticiperebbero le architetture futuriste di inizi Novecento o ai tanti frutti che soddisfano la moltitudine di essere umani che potremmo associare alle pasticche di LSD degli anni Settanta, il documentario fondamentalmente non si distacca dall’interpretazione classica del quadro. Siamo su un terreno allegorico, filtrato e mediato dal pensiero medievale, in cui il rapporto dell’essere umano con la natura, la fede religiosa, il peccato e la lussuria trova sfogo e pulsione su un terreno in costante estasi, quest’ultima emblematica e stupefacente.
Come quindi raccontare Bosch all’interno di un canone moderno riuscendo a comprendere interamente la sua opera? Forse potremmo staccarci dal nostro occhio storicizzante, che necessita di precise e organiche spiegazioni, evitando di riflettere la sua opera come abbracciante tutte le nevrosi del nostro contemporaneo viceversa potremmo considerare il Trittico delle delizie come un importante passaggio artistico di un essere umano la cui sensibilità è in perenne gioco tra dubbio, crisi profonda e senso di colpa. Per fare questo non basta utilizzare le nostre sovrastrutture formative e applicarle via via ai passaggi, allo storytelling dei suoi quadri. Bisognerebbe forse, citando Hobsbawm, sviluppare la tecnica dell’”osservatore partecipe”, colui il quale si stacca dall’oggetto del proprio studio delineando un panorama ampio, vivido del contesto storico, della cultura e delle usanze del mondo che fanno da cornice, da messinscena a ciò che si vuole analizzare. Dovremmo paradossalmente staccarci dalla visione del quadro, uscire dalla cornice e fiondarci sul contemporaneo di Bosch fermo restando che nessuno potrà mai, non avendo vissuto in prima persona quell’epoca, raccontare le “verità” o raccontarci perfettamente le urgenze del pittore olandese. Tuttavia una conoscenza ampia, seppur casuale e irregolare, del mondo di Bosch, una lettura della “culla medievale” in cui trovava a muoversi, al di là della sua presenza fissa presso la Confraternita di Nostra Signora, potrebbe allontanarci dall’empasse in cui ci troviamo nel comprendere il suo genio. Se dovessimo conoscere la forma mentis delle comunità primitive cristiane, vissute circa duemila anni fa, potremmo avere enormi problemi nel reperire le fonti necessarie viceversa con Bosch potremmo recuperare le sue consuetudini, le usanze e i ritmi di Den Bosch a metà Quattrocento, le preoccupazioni dei vari strati sociali, le paure e le gioie quotidiane. Non basta citare o donare brevi informazioni sull’amor cortese per spiegare gli sguardi angosciati ed eccitati degli amanti di Bosch; non basta narcotizzare con il tema della condanna alle tentazioni sessuali l’enorme, lo sconfinato mondo visionario in cui egli ci immerge; non basta procedere a compartimenti stagni settorializzando le varie simbologie.
L’opera di Bosch ha, nel suo DNA, strutture, forme, figure diversissime e sconfinate. Per comprendere realmente i suoi quadri potremmo abbandonare una nostra visione troppo spesso carica di sovrastrutture e recuperare, approfondire il suo tempo e il gioco continuo tra storia spirituale e storia profana. Potremmo successivamente procedere lasciando per strada una lettura troppo spesso affascinata, edulcorata del tempo medievale di Bosch comprendendo in profondità le paura di una sensibilità in cui le ombre diventano luce e viceversa. Siamo ovviamente pronti alla sconfitta e alla caduta, a quel precipizio che da centinaia di anni ci porta a frustrare ogni tentativo di recuperare un pensiero sull’opera del pittore olandese, tuttavia i tempi sono maturi per riconsiderare la nostra resa dei conti con il suo genio.