Sulla costa danese spira un vento forte e l’occhio, che si emoziona e resta incollato alle immagini, volge il suo sguardo verso la steppa. Qui si consuma la tragedia mentre le spighe di grano, che si muovono lentamente e accarezzano il quadro, ci riportano al cinema di Dreyer. Undici innocenti, carponi o striscianti, rischiano continuamente la vita e la loro unica speranza è l’utopia di tornare a casa.
Danimarca. La seconda guerra mondiale è finita e centinaia di prigionieri tedeschi vengono schiavizzati dall’esercito danese per un preciso scopo: disinnescare le migliaia di mine, posizionate durante la guerra dai nazisti, sotterrate nella sabbia. Al Sergente Carl, alcolizzato e violento, viene affidata una squadra di soldati narcotizzati dal mito del Reich. Quest’ultimi in realtà sono delle vittime, di fatto ragazzini adolescenti a cui manca la mamma e che la guerra ha violentato psicologicamente. Lentamente, e nell’assurdità della situazione, il Sergente e i soldati creeranno un legame sotto l’occhio silenzioso del Mare del Nord.
Il film inizia in medias res con l’addestramento degli “schiavi”, colpevoli di aver minato tutta la costa. Sin da subito scopriamo le caratteristiche dei due blocchi che si fronteggeranno: da un lato il Sergente e dall’altro i “soldati”. Gli spazi sono la spiaggia, il mare, la catapecchia dove i ragazzi dormono ammassati come bestie e la bettola del Sergente. A colpi di campi medi, totali e primi piani la regia, densa e cruda, si fa strada nelle viscere del rapporto che si va instaurando. Durante le operazioni di disinnesco è la tensione a farla da padrona, con i dettagli delle giovani mani incolpevoli che procedono di pari passo con i primi piani del volto dei ragazzini impauriti. Il sottotesto gradualmente prende forma, con la solitudine dei due blocchi che inizia a sovrapporsi e la figura del Sergente che da minacciosa diventa putativa. A interagire di più con il “padre” è Sebastian, colui che non ha paura, di fatto il ragazzo più forte e puro a cui la regia dedica i momenti di maggiore poesia.
Un film di grande qualità, tratto da una storia vera, che presenta e sviluppa un’idea precisa sul versante del linguaggio. L’interazione narrativa tra pathos, poesia e riflessione è gestita nel migliore dei modi e l’immedesimazione dello spettatore è forte. Si passa da immagini truculente a momenti di riflusso che hanno in uno sguardo, in un abbraccio o nel tema della speranza la bellezza dell’arte cinematografica.