Il protagonista, oltre a sedersi nell’Olimpo della storia, qui si palesa come narratore e ci racconta le sue gesta; fiero e sindonico, con la sua tuta nera e gli occhi vispi, ci propone un continuo sguardo in macchina mentre alle sue spalle New York si presenta con colori autunnali diventando personaggio silenzioso e fisso. L’attraversamento delle due Torri, quest’ultime enormi fisicamente nel passato quanto invadenti nel presente del nostro immaginario, è l’unico obiettivo da perseguire mentre un filo rosso, che diventa corda metallica, è metafora e nevrosi fino all’ultimo stacco.
Ripercorriamo, in chiave di fiction, le gesta del funambolo francese Philippe Petit, capace di attraversare su una fune metallica e con un’asta tra le mani, il sei agosto del 1974, le Torri Gemelle del World Trade Center. L’incipit del film apparecchia la tematica principale, di fatto il desiderio, il sogno, l’obiettivo del funambolo, sfruttando il protagonista stesso che, in una dialettica continua con lo spettatore, racconta le varie fasi di avvicinamento al giorno di gloria. Il nostro è fiero e spavaldo nel modo di porsi e la regia è inesorabilmente di stampo classico e con un montaggio cadenzato. A interagire con il piano del racconto ci pensano le varie fasi di avvicinamento alla performance: da qui il rapporto di Petit con il suo padre putativo, i vari adiuvanti che reiterano e assecondano le sue nevrosi, le difficoltà oggettive che si presentano nel bypassare i controlli della security fino ad arrivare al climax finale, in perfetto stile hollywoodiano.
Un film tuttavia hollywoodiano solo nel modo di presentarsi quanto piatto ed estremamente superficiale sul versante della scrittura e della resa attoriale. Molti snodi drammaturgici non emergono o sono totalmente sfilacciati, basti pensare a uno degli adiuvanti che passa, nel giro di pochi minuti, da furente ricattatore di Petit a festante compagno una volta terminata l’impresa. Poco approfonditi anche i vari rapporti che condizionano, alfabetizzano l’esistenza dell’artista, e qui entrano in gioco la compagna Annie o il maestro di circo Papa Rudy. Il 3D risulta obsoleto, aumentando il senso di piattume e di stanchezza che la regia di Zemeckis si porta dietro sin dalle prime sequenze. Anche la musica resta confinata in una prevedibile mission di commento.
Trasposizione dell’omonimo libro di Petit in uscita in Italia, The Walk non riesce a raccontarci la visione, la filosofia e l’anima del funambolo che ha caratterizzato il nostro Novecento e che resterà per sempre legato a quelle due Torri. Quest’ultime alla fine si “spengono” abbandonando un’opera purtroppo fiacca.