Può capitare, e avviene molto spesso da bambini, di sognare a occhi aperti dopo aver visto delle immagini in movimento nella grande sala cinematografica. Tornati a casa, il presente, il contesto avrà la valenza di cornice mentre la testa innescherà il carnevale appena salutato, che si rinnova, rivive e pulsa per lunghe ore, notti, momenti.
Qui la Regina deve sbranare un cuore, non umano viceversa di Drago marino, così da poter finalmente soddisfare il suo “egoismo materno”. Ha stretto un patto con la Morte e il Re scende nel fondale torbido a compiere l’atto. Ogni azione porta delle conseguenze, ed è la stessa cosa anche per un altro Regno, dove la povera principessa dagli occhi grandi e i boccoli biondi sarà vittima delle nevrosi di suo padre, un Re dolce per lo spazio di un campo medio quanto vigliacco e inumano nello sbriciolare il futuro della figlia. Seguendo la macchina da presa, che si espande nelle terre di Puglia, conosciamo anche un Re erotomane, che vive disgusto e spavento per la pelle che sa di vecchio e presenta uno sguardo caduco mentre si avvolge in turgidi capezzoli e piccanti atmosfere.
I tre mondi si alternano, accolgono una nascita, rivelatasi doppia, un distacco, rivelatosi tragico e un matrimonio, rivelatosi magico e drammatico. In quadro si pongono due Gemelli albini, un Orco dalla forza bruta e due Vecchiette che affronteranno percorsi diversi, divise e investite dal demone della giovinezza.
Si tratta del mondo creato da Matteo Garrone; sono questi i suoi nuovi fantasmi, che escono dalla cassaforte popolare e grottesca di “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile, e dal Seicento si riconfigurano nell’artigianato autoriale di un maestro maturo e visionario. Il Racconto dei Racconti è una specie di compendio della bellezza dell’animo umano, della laevitas della vita e della schifezza che quest’ultima può nonostante tutto contenere al suo interno. Tutti i personaggi divinizzano il quadro, come fa Guido Reni per il suo Gesù, e troviamo vigliacchi, scuoiatori di pelle, meretrici, giullari, teatranti, soldati, poveracci, animali mostruosi, soddisfazioni istintuali e represse, sgozzamenti, il sangue che fermenta sulle braccia nude e sgorga dalle radici di un albero o dalla gola. I tre Castelli si aprono classicamente e il ritmo è lento quanto tensivo, con gli ambienti che vivono di un’estetica di grande qualità: chiazzata da fumi, nei momenti di angoscia, dipinta con limpidezza, nei momenti catartici, plastica nei frangenti poetici. I rimandi alla cultura pittorica fiamminga sono tanti, da alcuni sguardi luciferini alla Bosch ai colori delle tele di Grunewald, dagli spazi di Schongauer al glabro di Van Dyck. L’orizzonte narrativo è ciclico, e in tale scelta emerge l’abbandono, da parte di Garrone, di una riflessione esclusivamente appannaggio dell’animo umano viceversa è evidente una riflessione su un sentimento laico che si interroga sullo scorrere del tempo, sulla caducità delle cose, sullo stupore che si manifesta con il passaggio tra un prima e un dopo. Alcuni passaggi di scrittura, soprattutto riguardo alla parabola finale dei due gemelli, sono un po’ troppo assorbiti, velocizzati mentre la musica coordina blandamente e non si spinge oltre la mission di commento.
Per il resto il film è un tuffo nell’arte di uno dei più bravi e pragmatici autori italiani, i cui fantasmi affascinano, colpiscono e si dileguano lentamente nell’animo e nelle sinapsi. Viene voglia di riprendere il Seicento, conoscere Basile e fermarsi per un attimo a rivivere l’abbraccio tra la Principessa e l’Orco, o la scoperta della donna nel bosco da parte del Re, o la discesa nei fondali marini; fermarsi un attimo soltanto, visto che di lì a poco il ribaltamento sarà repentino e magico, come la luce di Rembrandt in “La cena in Emmaus”.